DA START-UP A LET-DOWN - IL GIORNALISMO ONLINE NON DECOLLA: LE AVVENTURE-FLOP DI NATE SILVER, GLENN GREENWALD ED EZRA KLEIN - IN ITALIA NON VA MEGLIO
1. GIORNALISMO, TEMPI DURI PER NATE SILVER E GLENN GREENWALD: LE LORO STARTUP NON DECOLLANO
Marco Bardazzi per www.lastampa.it
Le startup sono una delle ragioni del successo che Internet ha avuto negli ultimi venti anni. Piccole società diventate colossi, come Google, Facebook o Twitter, sono alla base della profonda trasformazione che il web ha portato in quasi ogni attività umana, con un meccanismo di rottura degli schemi che gli americani chiamano disruption. Ma c’è un ambito che per il momento sembra offrire alle startup solo fallimenti: il giornalismo. Tre nuove iniziative partite dagli Usa sembrano confermare la tesi.
Sono giorni complicati per tre personaggi della Rete, Nate Silver, Glenn Greenwald e Ezra Klein, e per le imprese in cui si sono lanciati negli ultimi tempi. Silver è il giovane prodigio dei numeri e delle statistiche che nel 2012 aveva stupito tutti, dal suo blog sul New York Times, azzeccando ogni previsione sull’esito delle elezioni presidenziali che hanno visto la riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca. Dopo il trionfo, Silver ha rotto con il quotidiano di New York, accusandolo di essere troppo radicato nelle pratiche del “vecchio” giornalismo e di non capire la portata dell’innovazione introdotta dall’uso massiccio dei dati per fare informazione.
Grandi attese hanno accompagnato la sua nuova impresa, il sito FiveThirtyEight.com (538, il numero dei “voti elettorali” in ballo nella corsa alla Casa Bianca), interamente dedicato a informare attraverso l’analisi di dati e statistiche. Ma UsaToday ha appena rivelato che i vertici di Espn - il network sportivo che ha sostenuto la nascita della creatura di Silver - considerano ormai l’avventura “un disastro” per mancanza di traffico, pubblicità e interesse dei lettori. Le prime teste stanno cadendo e il sito potrebbe avere poco futuro.
Fatica invece a decollare The Intercept, l’iniziativa editoriale che Greenwald ha deciso di lanciare dopo aver lasciato il britannico The Guardian sulla scia della fama conquistata grazie alle rivelazioni dell’ex agente della Nsa Edward Snowden, di cui il giornalista e blogger è stato l’interfaccia mediatica.
Greenwald ha ricevuto l’appoggio e il finanziamento del miliardiario Pierre Omidyar, il fondatore di eBay, che intorno a lui ha costruito una vasta startup giornalistica, First Look Media, con l’obiettivo dichiarato di portare una profonda disruption nel mondo dell’informazione. Dopo dieci mesi di progetti e annunci, però, Omidyar adesso sta rallentando e ridimensionando le aspettative su cosa sarà First Look Media, mentre Greenwald stenta a trovare un proprio percorso che lo traghetti oltre il grande scoop su Snowden.
Non decolla neppure Vox.com, la testata creata da Klein, ex stella nascente del Washington Post che ha lasciato il quotidiano della capitale promettendo di rivoluzionare il modo in cui viene narrata la politica. Anche in questo caso, non ci sono tracce di disruption in corso. A Washington, in piena febbre elettorale per le imminenti elezioni di Midterm, la politica e il giornalismo politico non sembrano molto diversi da quelli di 20 o 30 anni fa.
Quando si tratta di media, insomma, le startup faticano a diventare grandi. Le eccezioni in questo senso sono rare. Ha funzionato The Politico, ormai diventato una solida organizzazione giornalistica che si appresta anche a sbarcare in Europa alleandosi con gli “old media” del gruppo tedesco Axel Springer. Funziona Buzzfeed, che però si vanta di essere in primo luogo una società tecnologica avanzata che si occupa di giornalismo e sta effettivamente provocando una qualche disruption nelle altre redazioni.
E poi funzionano realtà come la francese Mediapart, il cui modello è stato raccontato nel dettaglio su La Stampa nei giorni scorsi da Cesare Martinetti: giornalismo “vecchia scuola”, caccia alle notizie, niente pubblicità e contenuti tutti a pagamento sul web. Una ricetta che assomiglia più al Financial Times o alle testate del gruppo News Corp di Rupert Murdoch (dal Times al Sun, tutti protetti da rigidi paywall) che non all’idea di una web company basata su traffico e social media.
Anche in Italia, le startup giornalistiche come Linkiesta, Il Post o Lettera 43 stanno avendo buoni risultati, ma difficilmente si possono considerare dei disruptors che dettano l’agenda del Paese e cambiano l’ecosistema dell’informazione. Una realtà giovane e innovativa come Good Morning Italia, una startup in crescita, basa il proprio successo sull’essere un luogo di analisi e sintesi di contenuti realizzati dagli “old media”.
Nello stesso tempo, i colossi della Rete vanno ora a caccia di contenuti e finiscono per lanciarsi in campagne-acquisti di giornalisti della vecchia scuola da portare nella Silicon Valley, come nel caso di Yahoo! che assume Katie Couric dalla Cbs e David Pogue dal New York Times.
Non stupisce, in questo scenario, che i protagonisti della politica e dell’economia vadano in pellegrinaggio nella Silicon Valley a visitare le società più innovative, ma poi quando si tratta di media finiscano per recarsi sempre nelle redazioni del New York Times, Wall Street Journal, Bloomberg o The Economist (come nel caso di Matteo Renzi in questi giorni), percependoli ancora come i luoghi capaci di influenzare l’agenda e il dibattito internazionale, incluso quello che avviene sulla Rete e sui social media.
Un effetto positivo però le startup del giornalismo lo stanno ottenendo, anche quando non riescono a decollare: sono diventate laboratori di idee e stimoli che ora vengono raccolti e sviluppati nelle redazioni “tradizionali”, portando una ventata di innovazione in un settore che non è poi cambiato molto dai tempi di Gutenberg.
2. I BILANCI DELLE TESTATE ONLINE ITALIANE: TUTTI IN ROSSO (TRANNE DAGOSPIA)