STREPITOSA INTERVISTA A QUINCY JONES, LEGGENDA DELLA BLACK MUSIC - DA RAY CHARLES A MICHAEL JACKSON (E CONTRO JUSTIN BIEBER) IL RACCONTO DI UNA VITA DURA E DI UNA CARRIERA STELLARE
Marlowe Stern per “Daily Beast”
L’uomo più premiato della storia della musica è produttore di un superbo documentario dal titolo “Keep On Keepin’ On”. E’ difficile ricordare i traguardi di questo maestro di 81 anni, leggenda vivente della black music, arrangiatore, produttore, trombettista, compositore.
Basta dire che Quincy Jones ha accumulato 79 nomination ai Grammy e ne ha vinti 27, ha prodotto Frank Sinatra e gli album di Michael Jackson “Off the Wall”, “Thriller” e “Bad” (una tripletta da 175 milioni di copie vendute). L’ultimo progetto è questo nuovo documentario diretto da Alan Hicks, che racconta la storia del jazzista Clark Terry alle prese con il pianista ventitreenne e non vedente Justin Kauflin, il prodigio che andava preparato a un importante concorso per talenti.
E’ film che echeggia molti ricordi? Clark Terry fu anche suo mentore.
«Ci conoscemmo a 12 o 13 anni. Marinavo la scuola e andavo al “Paramount Theatre”, lì incontravo i ragazzi di East Chicago: Billy Eckstein, Sammy Davis, Mel Tormé. Count Basie arrivò, non aveva la big band, ma solo quattro fiati, uno era Clark. Andavo in giro con loro e lo supplicavo di insegnarmi a suonare bene. Quando ero ragazzo sapevo perché Dio ci ha dato due orecchie e una bocca: devi ascoltare il doppio di quanto parli. Oggi parlo molto, all’epoca ascoltavo».
All’epoca frequentava anche Ray Charles.
«Ray e io abbiamo trascorso la vita insieme. A 13 anni suonavamo nei club cinque sere a settimana, e lui era incredibile. Non esiste niente di meglio. La mattina mi presentavo a scuola alle 11 ma il mio insegnante Parker Cook non mi rimproverava. Mi diceva: “Dio vuole che tu faccia questo e questo è quello che devi fare”. Ho invece conosciuto Aretha Franklin quando aveva 12 anni, stessa età di quando incontrai per la prima volta
Stevie Wonder e Michael Jackson. E’ il mio numero magico, il 12»
Lei viene dalla zona sud di Chicago, vero?
«Oh sì. E questa cicatrice sul polso è un souvenir. A 7 anni capitai sulla strada sbagliata e mi inchiodarono la mano su un cancello con un coltello a serramanico. Non si scherza a Chicago, è brutale. Prendevamo una molletta, tagliavamo una camera d’aria, una lingua di scarpa, una stringa, un uovo d’acciaio e il risultato era peggio di una nove millimetri. Erano quelle le nostre pistole».
Vero che per un periodo ha lavorato per un magnaccia?
«Per un paio di magnaccia. Avevo 11 anni e mi prendevo cura delle ragazze, loro mi facevano da madri. Io mia madre non ce l’avevo e loro furono dolcissime con me».
La situazione a Chicago è tutt’ora disastrosa.
«E’ folle. Credo che il problema sia la mancanza di un ministro della cultura. Il regista russo Elem Klimov, un giorno venne e disse a una trentina di noi della “Warner Bros”: “Vi rendete conto di quale responsabilità avete quando proiettate le immagini sullo schermo? Sapete cosa fa la psiche umana? Le prende come un modello, una direzione. Le immagini influenzano le persone e le rendono violente. “Grand Theft Auto?”. Su, andiamo. Senza cultura i ragazzini non sanno chi sono e da dove vengono. La musica più potente al mondo, jazz e blues? Non la conoscono».
quincy jones the birth of a band
I rapper tipo Chief Keef posano con le pistole e i ragazzini lo emulano...
«E’ sempre stato così. Intendo fare un film sui Policy Kings, i più noti gangster neri della storia d’America. Giravano negli anni trenta e sembravano neri italiani. Si dedicavano al racket, fu Al Capone a cacciarli via da Chicago. Uno di loro era il migliore amico di mio padre. Da ragazzino ho visto un morto ogni giorno, mitra, sigari, soldi sporchi, poliziotti che si divertivano a sparare ai minori, ragazzi che giravano con il rompighiaccio. Quando sei così piccolo non sai bene interpretare, ma ti abitui velocemente».
Parliamo di Michael Jackson.
«Michael Jackson ha fatto “MTV”. E’ stato il primo artista nero in onda lì. Prima, l’emittente non passava assolutamente la black music. Abbiamo pubblicato “The Girl Is Mine” con McCartney, “Billie Jean”, “Beat It”. La gente non capiva cosa stessi combinando con “Thriller”: Vincent Price che leggeva Edgar Allan Poe? Fu un successo mondiale. Di 800 canzoni ne prendemmo 9. Scegliemmo le 4 più deboli e le rimpiazzammo con le 4 più forti
“The Lady in My Life,” “PYT,” “Human Nature,” e “Beat It.” Le unimmo a “Billie Jean” e “Wanna Be Startin’ Something” e BAM! Ecco un grande album».
Come se la sta cavando chi gestisce l’eredità di Michael?
«L’ultimo disco è deludente. Passo i guai ogni volta che ne parlo».
Kanye West è stato spesso comparato a Michael. C’è qualcuno che secondo lei gli si avvicina?
«Oh, andiamo! Non ce n’è per nessuno. Michael guardava a Fred Astaire, Gene Kelly e James Brown. Bisogna innanzitutto guardare ai maestri, altrimenti non impari nemmeno ad essere mediocre»
Pensa che oggi non ci siano mentori musicali?
«Lo penso assolutamente. Ma ripeto, il problema più grande è la mancanza della cultura. Nessuno sa più da dove proviene la musica. Gli Stones sono ancora in auge a 70 anni perché conoscono le basi della musica, cioè blues e jazz. Due B potenti quanto le tre B di
Bach, Beethoven e Brahms. Produrrò un film di animazione in 3D con la squadra di “Toy Story” e uno spettacolo a Broadway, sulla genesi e l’evoluzione del jazz e del blues. Perché gli americani non ne hanno idea! Sei un fan di Justin Bieber? Ogni volta che ne parlo, finisco nei guai...lo sei?
No.
«Nemmeno io. Oggi essere una popstar riguarda solo due cose: personalità e scandalo».
Quale artista salva?
«Mi piacciono Common, Drake, Bruno Mars. Ariana Grande e Jennifer Hudson sono grandi cantanti. “Global Gumbo All-Stars” cambierà il mondo».
E invece come sta messa l’industria discografica?
«Non esiste alcun industria discografica. Esistono solo i concerti oggi, il resto è pirateria».