Dal saggio introduttivo di Pasquale Chessa a "Baroni di razza" di Barbara Raggi, Editori Riuniti, «Come l'Università nel dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali»
cover baroniL'ALGORITMO DEL PERDONO
Un mattino, quel mattino del 14 ottobre 1947, un mattino d'autunno, il professore si sentì investito da un'illuminazione metafisica, qualcosa di soprannaturale che vibrava nel suo spirito. E proprio in quel momento le macchie di umido e muffa campite sul muro, il muro della sua villa in via Salaria 218 a Roma, sembravano avvicinarsi l'una all'altra rivelando ai suoi occhi stupefatti l'immagine del volto di Cristo. Versione Veronica.
Agitato da sentimenti contrastanti, ben consapevole che si trattasse di un miracolo, scelse di mantenere segreta l'apparizione, sebbene per non perdere memoria del fatto divino, a scanso di dubbi malevoli, avesse già pensato a far intervenire un muratore per fissare con la pittura i contorni incerti della veronica in una immagine più chiara e definita.
Tre anni dopo, siamo in primavera, aprile 1950, il professore Nicola Pende, endocrinologo di fama, lascia che la notizia del miracolo irrompa su tutta la stampa italiana. Nel frattempo l'immagine del Cristo, meglio definita, riverbera sul muro di casa Pende l'iconografia dell'Ultima cena di Leonardo.
Anche perché non può che essere divina la coincidenza fra il giorno della prima visione autunnale del volto di Cristo e il giorno di nascita di Leonardo, come scopre presto Madame Sylvia, una sua maga di fiducia. Già, perché il cattolicissimo Pende è documentato facesse largo uso di sedute spiritiche a dispetto del suo status di scienziato.
Comunque, per evitare attribuzioni maldestre, sarà anche l'occhio esperto del sovrintendente dei Musei Vaticani, monsignor Leccisi, a confermare nella «trasudazione» una evidente ispirazione leonardesca. Non fosse stato per l'icastica definizione di «penoso sgorbio» del critico d'arte della «Gazzetta del popolo», Marziano Bernardi, un'attribuzione vaticana tanto autorevole avrebbe fornito non solo una pregiata patina estetica ma insieme anche una legittimazione religiosa prima e in ultima analisi politica. Il corsivo dell'«Unità», Il fesso del giorno nella rubrica Il dito nell'occhio, venendo dal pulpito dell'ateismo politico, funzionava come una prova a contrario.
PASQUALE CHESSANon si sbaglia troppo allora se si cerca di capire quanto quelle date fossero innocenti. Perché è proprio nello svolgersi degli anni Quaranta che Pende può dire, nella primavera del 1950, di essere riuscito a compiere un miracolo vero e tangibile. In coincidenza con l'annuncio della «trasudazione», in aprile, il giro di conferenze di Pende in Brasile deve essere già stato congegnato nei minimi dettagli.
È il momento del riscatto internazionale dopo l'epurazione e la sospensione dall'insegnamento decretata già nel 1944 dall'infaticabile Charles Poletti, il capo dell'Amgot, l'amministrazione angloamericana nell'Italia occupata, per aver firmato il famigerato Manifesto sulla razza, fondamento della legislazione antisemita del 1938. La discussione sulla volontarietà di quella firma è stata risolta in sede storica da Renzo De Felice attraverso un'ineccepibile documentazione d'archivio tutta a sfavore di Pende.
Ed ecco il vero miracolo, affatto trascendentale, tutto terreno e pragmatico, anzi «scientifico»: sospeso dall'insegnamento fin dal gennaio 1946 per la sua partecipazione attiva alla politica fascista in quanto senatore del Regno, con una serie di ben congegnati ricorsi, proprio mentre si esaurisce la spinta propulsiva del vento del Nord dopo la Liberazione del 25 aprile, quando sono passati quasi tre mesi dalla vittoria democristiana del 18 aprile, l'8 luglio del 1948, con una pronuncia definitiva della Consulta, il professor Nicola Pende può tornare a insegnare «alla facoltà medica di Roma». Come se nulla fosse successo. Potere anfibio della scienza.
Mussolini Cadavere«Scientifico»: è la parola chiave su cui fa perno Barbara Raggi per entrare nei meandri archivistici e seguire passo passo la ramificata ricostruzione delle sotterranee procedure difensive elaborate dalla cultura italiana del dopoguerra per trasfigurare la necessaria «epurazione» politica dei protagonisti della politica razziale del fascismo in una redentrice «purificazione» culturale. «Scientifico»: è la parola magica, come nelle antiche fiabe orientali, che preserva l'integrità morale di chi la possiede, legittimando la rimozione soggettiva di ogni responsabilità politica. «Scientifico» è il concetto scudo che assolve financo dalla partecipazione attiva negli organismi creati dal regime per attuare la discriminazione e la persecuzione razziale, soprattutto verso gli ebrei.
Baroni di razza, quasi un emblema scelto per titolo allo scopo di rappresentare il senso della ricerca di Barbara Raggi, non è solo un ben riuscito gioco di parole ma contiene, come il Witz freudiano, una verità rimossa dalla cultura civile, storica e politica, dell'Italia repubblicana. (...)
Le élite funzionali che hanno partecipato alla politica razziale, in nome del loro potere culturale, hanno trovato nello stesso potere culturale la legittimità necessaria per transitare dal fascismo alla Repubblica. (...)
Baroni di razza riporta in luce dopo più di mezzo secolo procedure rimaste in ombra, poteri forti, storie sommerse e biografie salvate. Il meccanismo assolutorio del potere universitario e accademico funziona come un algoritmo del perdono morale etico e politico. (...)
Lascia un senso di amarezza lo «strabismo corporativo» di Guido Calogero, barometro morale del pensiero democratico, antifascista fino al confino, che già nel 1934 si preoccupava con Giovanni Gentile, per iscritto, della sorte degli ebrei tedeschi, quando si legge la sua lettera del 1944 in difesa di Antonino Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e la razza e soprattutto della particolare Commissione che si era occupata di redigere una nuova Dichiarazione della razza e quindi di riscrivere il famigerato Manifesto non solo per dare un'inclinazione storica e culturale al razzismo fascista, ma per rendere compatibile il razzismo italiano con le esigenze del Vaticano.
benito mussoliniGrazie a Calogero anche Pagliaro sarà degnamente riabilitato già nel 1946 e potrà concludere serenamente la sua carriera col rango di «professore emerito». Alla fine del 1967 quando stava per scoppiare il Sessantotto lo si poteva vedere ancora attraversare i corridoi della facoltà di Lettere a Roma... Il suo allievo più prestigioso (Tulliio De Mauro, Ndr) ancora nel 1996 ne proteggeva la memoria minimizzando il suo attivo ruolo scientifico nella elaborazione di una teoria italiana del razzismo e soprattutto tacendo l'impegno nel Consiglio superiore.
Gaetano Azzariti, per nomina presidenziale, figura fra i primi 15 giudici insediati negli scranni più alti della Corte costituzionale al momento della sua nascita il giorno del giuramento dei primi giudici costituzionali della storia nazionale, il 15 dicembre del 1955, seppure con quasi 8 anni pieni di ritardo rispetto alla Costituzione che nel '48 ne sanciva l'istituzione.
«Tecnico di vocazione governativa» secondo la definizione puntuale di Nicola Tranfaglia, riferita alla prima transizione di cui fu protagonista, dallo Stato liberale allo Stato fascista, che bene si adatta anche alla seconda, in quel tempo Azzariti era già stato collocato a riposo da quattro anni dopo una brillante carriera prima del fascismo, al tempo di Giolitti, e poi durante il fascismo con Mussolini.
E dopo, fin dai primi anni dell'età repubblicana, la sua carriera avrebbe trovato nuovo impulso, nel riconoscimento del suo valore scientifico, scienziato del diritto al servizio della nuova Italia. Guardasigilli nel primo governo Badoglio alla caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943, dopo il ritorno dei tedeschi nei mesi di Roma «città aperta» si troverà fra le fila della varia resistenza romana, la «resistenza in convento», che salverà grande parte della classe dirigente italiana, e non solo quella moderata, proteggendone la stessa incolumità fisica.
Primum vivere.
Alla caduta del fascismo, quando entra nel primo governo Badoglio, troviamo Azzariti, in carica già dal 1938, alla presidenza della Commissione istituita presso il ministero per l'Interno, sinteticamente passata alla storia con la fosca definizione di Tribunale della Razza. Infatti il processo di epurazione non sfiorò Azzariti! Nemmeno nella sua vita postuma. Nella biografia dei presidenti della Corte quei cinque anni di leggi razziali sono stati sfrontatamente cancellati. Nelle commemorazioni funebri, nei primi giorni del 1961, cristianamente dimenticati.
Una procedura di smemorazione che sembrava interrotta dalla pubblicazione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, il libro con cui Renzo De Felice inaugura la fertile stagione di revisione storiografica sollevando per sempre la cortina di nebbia che fino a quel giorno di novembre dello stesso anno aveva impedito alla storiografia italiana di affrontare lo studio scientifico della discriminazione e persecuzione razziale in Italia. Nel maelstrom di polemiche a farne le spese fu soprattutto il segretario del Partito radicale, Leopoldo Piccardi, che ne ebbe la carriera politica stroncata perché figurava, in una nota a piè di pagina, fra i partecipanti a un convegno italo-germanico del 1939 che aveva approvato «una risoluzione comune sul tema di razza e diritto».
Anche il coraggio scientifico di De Felice fu però sanzionato con una ingiustificata bocciatura al concorso per la libera docenza, nel 1962, «per un'inclinazione a valutazioni eccessive di uomini e tendenze». Nel pieno del miracolo economico, proprio nel momento in cui la storiografia italiana si rivolgeva con nuovo spirito critico al passato fascista, la fase politica strutturata intorno alla «continuità dello Stato» poteva dirsi conclusa. Siamo ormai nel pieno dell'Età democristiana.
Ma per capire come la partita si fosse conclusa con i suoi vinti e i suoi vincitori, è sintomatico scoprire che nello stesso anno in cui De Felice viene bocciato, il presidente della Repubblica Antonio Segni, poteva appuntare la «medaglia d'oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte» sul petto di Giacomo Acerbo, eponimo della legge del 1923 che aveva consentito nel 1924 con il minimo di voti di ottenere il massimo dei seggi così da rendere automatico il successivo passaggio alla dittatura.
Ma Acerbo, il ministro preferito di Mussolini, ebbe un ruolo del tutto speciale nella elaborazione della strategia fascista per costruire un'originale teoria del razzismo italiano. Nel 1940 è proprio Acerbo, già incaricato di presiedere il Consiglio superiore fin dal 1938, a farsi interprete, in un libro intitolato Il fascismo e i problemi della razza, di una teoria della razza in una prospettiva cattolica.
Un punto di vista che deve avere trovato più di una condiscendenza clericale nel clima politico instaurato dalla vittoria cattolica dopo il 1948. Perciò mi sembra, in ultima sintesi, che sia proprio la biografia repubblicana di Acerbo il parametro migliore per misurare il maggiore pregio storiografico della ricerca di Barbara Raggi. Credo che bastino poche righe: aver introdotto il tema della persecuzione razziale nella storiografia della continuità dello Stato.