il signore degli anelli

VIENI AVANTI QUIRINO (PRINCIPE): "QUANDO IO E ZOLLA PUBBLICAMMO TOLKIEN CAPIMMO SUBITO CHE NON ERA FANTASY MA LA RIAPPARIZIONE DEL GRANDE POEMA EPICO-CAVALLERESCO" - "I DANNI CHE IL LIBRO DI DON MILANI FECE ALLA SCUOLA PUBBLICA"

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Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

Guardo la sua testa. Un uovo irregolare con qualche leggera increspatura. Una testa indenne dall’attualità. Ieri sera — uno ieri di qualche settimana fa — l’ho ascoltata in una dotta esposizione di Lieder. La vocetta rabbiosa e penetrante volava tra gli spazi di una chiesa sconsacrata di Valdobbiadene. Appartiene a un musicologo insigne. A un traduttore raffinato.

 

Si chiama Quirino Principe. Lo incontro la mattina dopo nello spazio di un albergo dove facciamo colazione. Ha un’intelligenza minacciosa che respira come il soffio del drago. Non sarà un caso che ha curato Il signore degli anelli. Gli guardo le mani. Piccole. Sono il suo cruccio, scoprirò. Ogni catastrofe, penso, nasce da un dettaglio. E quest’uomo, che imparo a conoscere, è pieno di dettagli.

 

L’ho ascoltata ieri mentre parlava del Lied — del rapporto tra musica e poesia — e la vedevo così attento al duo di voce e piano che assecondava le sue riflessioni.

«E cosa ha pensato?»

 

Non ho pensato a niente. Anzi, forse sì, a una cosa. Al fatto che tanto più un musicologo è grande tanto più marcata è la croce del suo fallimento.

QUIRINO PRINCIPE IL SIGNORE ANELLIQUIRINO PRINCIPE IL SIGNORE ANELLI

«È il dramma della critica. Non potersi mai sostituire interamente al proprio oggetto».

 

Come è nato il suo rapporto con la musica?

«Avevo un padre medico. Era direttore dell’Istituto di igiene a Gorizia. Quando scoppiò la guerra sfollammo in un paesino del Friuli. Vivevamo nel retro di una locanda nella quale si acquartierò un comando delle SS. Il colonnello era un musicomane che girava con il suo pianoforte. Lo installò. E per la prima volta vidi questo strumento. Avevo sette anni. Mi avvicinai e sfiorai la tastiera. Fu quell’ufficiale a darmi i primi rudimenti. In seguito mio padre decise di farmi studiare musica».

 

Immagino per una carriera di strumentista o solista.

«Immagina bene. Ma l’ipersensibilità è stata la croce della mia vita. Sognavo di diventare un eccellente pianista. Mi guardi le mani. Sono la metà di quello che dovrebbero essere. A volte penso di essere uno scherzo della natura. Tra i 15 e i 16 anni ho visto letteralmente naufragare i miei sogni. Poi sono subentrati altri interessi: la letteratura e la filosofia. Mio padre cominciò a disprezzare quello che facevo».

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Lei come reagì?

«Chiudendomi e dando lezioni private per mantenermi. Studiai a Padova. Mi laureai con Carlo Diano dopo che il mio professore, Luigi Stefanini, morì improvvisamente. Diano odiava Stefanini e questo produsse il totale disinteresse per la mia tesi su Filone d’Alessandria. L’università a quel tempo mi fu preclusa. Insegnai in un liceo di Belluno. Avevano cacciato un professore esibizionista e fui preso al suo posto. Furono anni bellissimi».

 

Ai quali seguì il lavoro editoriale alla Garzanti.

«Ho lavorato a via della Spiga dal 22 ottobre del 1962 a sabato 13 dicembre 1969. Era il giorno dopo la strage di Piazza Fontana».

 

il signore degli anelliil signore degli anelli

Perché andò via?

«Dovrei parlarle del pessimo ricordo che ho di Livio Garzanti».

 

Non sarebbe il primo.

«Era un uomo intelligente, sottile, abilissimo come editore nello scegliersi collaboratori validissimi. Ma ancora più abile nel cominciare presto a odiarli, umiliarli, annientarli e infine privarsene, salvo poi pentirsi. Odiava chiunque dimostrasse di avere ragione in una controversia editoriale o in un giudizio storico politico. Me ne andai lanciandogli contro una scrivania. Passai, praticamente il lunedì successivo, alla Rusconi».

 

Lì il grande ispiratore era Elémire Zolla. Che ricordo ne ha?

«È stato un genio e di lui ho un acuto rimpianto. Fu il primo persuasore di Alfredo Cattabiani — direttore editoriale della Rusconi — nell’impresa di pubblicare Il signore degli anelli ».

 

Era stata Vicki Alliata a tradurlo.

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«Lo aveva fatto di “sua sponte” e l’editore Ubaldini ne aveva pubblicato il primo volume. Fu un pauroso flop. Ubaldini regalò tutto il materiale a Cattabiani. E il giorno in cui arrivai in casa editrice mi scaraventò addosso quella montagna di carta. Feci una revisione generale, corressi gli errori, modificai il tono generale, ricostruii le Appendici. Fu una fatica capillare. Detto questo mi inchino dinanzi alla parte che la Alliata ha avuto in quell’impresa».

 

Quel “fantasy” era il primo di una lunga serie?

«Neppure per un istante vidi The Lord of the Rings come qualcosa di simile a ciò che in futuro sarebbe sgocciolato con i nomi di Harry Potter o Twilight. Capii subito — come lo capì Zolla — che si trattava della riapparizione del grande poema epico-cavalleresco rinascimentale di Boiardo o Ariosto o Spenser».

 

IL SIGNORE DEGLI ANELLIIL SIGNORE DEGLI ANELLI

A proposito di traduzioni si è occupato di Ernst Jünger. Ha tradotto fra le varie cose “ L’Operaio”.

«La grandezza di quel libro è nella sua crudeltà che toglie ogni illusione. Jünger individuò tre carnefici della libertà: l’arroganza burocratica-tecnocratica; l’uguaglianza raggiunta a livelli d’ignoranza e di rimbecillimento e il rigurgito delle fedi e delle superstizioni».

 

Cosa le suscita la parola fede?

«Una profonda e dolente indignazione. Essa è soltanto una desolante testimonianza della debolezza umana in cui convergono paura, calcolo, ignoranza puerile, desiderio di conforto e di servile appartenenza».

Non le pare troppo tranchant? Dopotutto, la fede è anche abbandono, tormento, sete insaziabile.

«Guardo agli effetti della fede più che nel singolo nella coscienza collettiva. E vedo un collante per un potere sempre più smisurato».

 

 

Se non nella fede dov’è la salvezza?

«La vera salvezza, il vero ancorché effimero paradiso, è l’arte, il contatto con il Bello, con l’ordine, con l’autentico, con l’energia, con il coraggio della solitudine».

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Le sue predilezioni musicali vanno verso il romanticismo, alle tinte gotiche. Le corrisponde caratterialmente?

«Amo gli eccessi emotivi e lo sforzo di disciplinarli e di tradurre la sofferenza in pathos e il pathos in sottigliezza di sensazioni. Per me, è il più seducente esercizio sportivo».

 

A proposito di veemenza notavo un certo disprezzo per il suo corpo. A cominciare dalle mani che l’hanno limitata.

«Odio l’aspetto esteriore che la Natura mi ha inflitto. Per l’iniquità del tradimento mi chiedo: perché proprio a me?».

Crede che la Natura distribuisca i propri doni per merito?

«Non lo penso affatto. Nondimeno le ferite non si rimarginano ».

 

Ho l’impressione che davanti al “mostruoso” lei subisca una certa fascinazione. Mi sbaglio?

«È così. Amo gli eccessi, anche l’eccesso del mio odio per me stesso. Ma influisce sulla fascinazione anche una sorta di “corrente indotta”. Le arti — nell’Occidente cristiano e post-cristiano — hanno quasi sempre associato il mostruoso all’infernale. Forse amo tanto il mostruoso poiché amo il Diavolo semi-comico di Michael Pacher e quelli decisamente non comici di Taddeo di Gaddo o di Luca Signorelli; o i sinistri scheletri di James Ensor».

 

Ma che cos’è questa passione luciferina?

«È la disobbedienza. È dire no. Lucifero pronuncia il primo no. È provare a ribellarsi alle convenzioni e al conformismo; alle imposizioni e all’oltraggio».

E lei lo ha fatto?

«Ci ho provato. Ho detto molti no nella mia vita. E l’ho capito proprio quando la prima volta non ebbi il coraggio di pronunciarlo, quel fatidico no».

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Cosa accadde esattamente?

«Fu durante una vacanza estiva non lontano da Trieste. In quei giorni nacque un idillio con una ragazza. Mi innamorai e, cosa ancora più sorprendente, lei si innamorò di me.Quando comunicai la cosa a mio padre. Rispose: bene, finalmente.

 

E poi volle sapere il nome: Nevenka, gli dissi. Si precipitò da me e mi schiaffeggiò e mi portò via, in macchina. E mi ordinò di non vederla mai più. E sa perché? Perché era slava. E io non ebbi il coraggio di dire no. Subii il suo razzismo e becero nazionalismo».

 

 

A proposito di razzismo e nazionalismo la zona di confine in cui ha vissuto è stata teatro di avvenimenti tragici.

«Metà della mia famiglia finì nelle foibe. Durante 45 giorni quasi quattromila persone, tra Gorizia e provincia, finirono uccise. Dei cugini primi di mia madre morirono. Una cuginetta di 5 anni fu violentata dalla soldataglia serba. La trascinarono sul ciglio della foiba di Basovizza e la gettarono in fondo. Stessa sorte toccò a mio zio. Gli spararono alla nuca e lo spinsero nella fossa».

Non era questo il vero inferno?

«Quello che volevano farci credere era la promessa di un paradiso in terra. La nascita dell’uomo nuovo. E pensare che c’eravamo appena liberati dai nazisti. A questo proposito ricordo la famiglia di Carlo Michelstaedter. La vecchia madre, una sorella i figli, furono messi su di un vagone blindato e deportati. Ho conosciuto Paula, la sorella, l’unica che sopravvisse all’orrore di Auschwitz. Per noi goriziani la guerra finì nel 1947».

DON MILANIDON MILANI

 

Cosa le tolse la guerra?

«L’incanto. La crudeltà non era solo vedere la gente che moriva e la fame. La crudeltà era di non poter ascoltare musica e di non poter leggere».

Quale letteratura frequenta e ama?

«Le due letterature classiche, greca e latina, che devono sempre essere lette in lingua originale e venendo ai moderni: Goethe, letto ossessivamente. Molto di Shakespeare, soprattutto le commedie agrodolci e meno frequentate come The Winter Tale; Dickens, la Austen, i romanzi gotici, Proust, Kafka, Borges del quale posso dire di ricordare ogni parola».

 

E la poesia?

«Anche qui dovrei fare un elenco lunghissimo».

Il confronto tra le “Elegie duinesi” e “Terra desolata” cosa le suggerisce?

«Conoscendoli a memoria — forse insieme con la Commedia dantesca — rappresentano l’omologo di ciò che per il credente sono le preghiere mattutine e serali. Li recito dentro di me, tutti i giorni. È un esercizio di liberazione dalle banalità della vita. Una continua e inesausta meditazione sul bello».

 

In pratica cosa ha preso da Eliot e da Rilke?

«Eliot mi arma contro la vita e la Storia e perciò mi dà una tristissima felicità. Mentre Rilke mi arma contro la morte facendomi desiderare l’annientamento e perciò rafforza il coraggio e l’orgoglio della solitudine e della rinuncia».

Un libro che ha odiato?

DON MILANI LIBRODON MILANI LIBRO

«Lei non lo scriverebbe mai».

Perché? Ciascuno è responsabile di ciò che dice.

«Mi ha molto colpito Lettera a una professoressa . Un libro celebrato, osannato che fu, secondo me, uno dei tanti colpi di piccone sferrati contro la scuola laica e statale, producendo guasti irreparabili.

 

Quel libro ha insegnato a non confondere autorità e autoritarismo. E non credo che siccome era un prete a sostenere quelle cose, allora andasse visto come un attentato alla scuola statale.

«Le sembra giusta la liquidazione progressiva che fu attuata del latino? E la professoressa-simbolo, oggetto di tutti gli strali che fine ha fatto? Glielo dico io: infamata e diffamata, ridicolizzata e sprezzantemente compatita, ha continuato a tirare la carretta per pochi spiccioli, a rompersi la schiena e a sgolarsi».

Non mi pare che le colpe vadano attribuite a Don Milani e all’esperienza della scuola di Barbiana.

«Quell’esperienza ha ipnotizzato tanta sinistra laica. Fu anche per suggestione di quel libro che, l’anno successivo alla sua pubblicazione, si cominciò a dire che le letterature classiche, la Commedia dantesca, la tragedia greca, Eliot, Borges, Rilke e Thomas Mann, erano “merda”».

 

Potremmo continuare all’infinito. È sempre così cattivo?

«La cattiveria, come lei la chiama, è un antidoto agli zuccheri dell’anima. Ai dolcificanti della vita che in dosi massicce vorrebbero inocularci in vecchiaia».

 

Cosa rappresenta la sua vecchiaia?

«Penso che la vita sia traboccante di bellezze, ma alcune realtà che sperimentiamo — come le ho raccontato — sono peggiori della morte. Nella vecchiaia mi sento meno infelice che in altre fasi della mia vita».

 

Lei non crede nel Paradiso. Cos’è allora l’Inferno?

«L’Inferno è l’estinzione della libertà. Quando avevo meno di 11 anni mi ribellai alla religione, alla confessione, alla comunione, alla preghiera, all’obbligo di andare a messa. Dovevo sedere su un banco di chiesa e sentivo le lagne stonate e belanti di un gruppo di suore accovacciate su un banco vicino. Sapevo che, in realtà, era quello l’Inferno.

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L’oppressione praticata in nome di Dio. Non è quello che sta accadendo? Il nostro inferno è sempre più vicino, sempre più quotidiano».

 

Detto da un maestro dell’oscurità è inquietante.

«Mi torna alla mente la tetra ironia di una frase di Adorno: “La terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura”».

Ero certo che non amasse il progresso.

«Come potrei? Ciò che chiamiamo progresso, scrisse lo sventurato Benjamin, è questa tempesta».

 

 

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