marchionne

E' MORTO SERGIO MARCHIONNE. IL MANAGER, 66 ANNI, E' DECEDUTO ALL'OSPEDALE DI ZURIGO - ALDO CAZZULLO: “ERA LEGATISSIMO A UN’ITALIA IMMAGINARIA MA ESPRIMEVA UN’ESTRANEITÀ AL LIMITE DEL DISPREZZO PER L’ITALIA REALE. IL SUO GRANDE MERITO È STATO RESTITUIRE ALLA FIAT AUTONOMIA FINANZIARIA. ALLA FINE NON HA FONDATO UNA SUA AZIENDA, NON SI È PRESO UN PEZZO DELL’IMPERO, NON È SCESO IN POLITICA, NON HA FATTO NULLA DI CIÒ CHE SI ERA DETTO SUL SUO CONTO"

Aldo Cazzullo per www.corriere.it

franzo grande stevens john elkann sergio marchionne

 

Sergio Marchionne non ha salvato la Fiat come la conoscevamo, Fabbrica italiana automobili Torino. Ha preso atto della sua fine e l’ha trasformata in qualcosa di radicalmente diverso: una multinazionale con sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra, base in America e qualche stabilimento in Italia - oltre ovviamente al polo torinese di cultura industriale -, ora affidati a un manager britannico.

marchionne manuela battezzato

 

Questo atto di distruzione creativa, come diceva lui stesso citando l’amato Schumpeter, non si è limitato all’azienda. Legatissimo a un’Italia immaginaria e immaginata – lo scudetto tricolore, il padre carabiniere, l’Abruzzo delle origini -, Marchionne sentiva ed esprimeva un’estraneità al limite del disprezzo per l’Italia reale, com’era diventata durante la sua assenza.

 

SERGIO MARCHIONNE

Non stimava Berlusconi e non lo nascose neppure quando era l’uomo più potente d’Italia; rifilò alle principali banche un pacco mica male, mantenendo con Gabetti il controllo dell’azienda alla famiglia; uscì da Confindustria, che ai tempi di Agnelli era stata una dependance della Fiat. E trovò un segno per raccontare la propria alterità: il maglione scuro al posto della giacca e cravatta dell’establishment, concedendosi anche il vezzo – non per mancargli di rispetto da morto, ma per restituirne la fisicità da vivo – della forfora sulle spalle.

SERGIO MARCHIONNE

 

Eppure, nonostante la sua rivoluzione e la sua diversità, la forza del destino è tale che pure Marchionne si ritrova inscritto nella saga secolare degli Agnelli e della Fiat. Una simbiosi che dura da 120 anni – un’era siderale nel capitalismo moderno -, su cui talora la sorte è scesa come una mannaia: l’elica dell’idrovolante che colpisce alla nuca Edoardo Agnelli nel mare di Genova (14 luglio 1935); la fine crudele e prematura dell’erede designato, Giovanni Alberto Agnelli (13 dicembre 1997); il volo giù dal viadotto della Torino-Savona di Edoardo junior (15 novembre 2000); la morte improvvisa di Umberto Agnelli, che aveva atteso il potere per tutta la vita e l’aveva perso in poco più di un anno (27 maggio 2004).

SERGIO MARCHIONNE

 

Marchionne fa parte della stessa storia non solo per la fine inattesa e ingiusta, ma perché in oltre un secolo la Fiat ha avuto soltanto tre grandi manager: Vittorio Valletta, Cesare Romiti e lui. Così come ha avuto solo tre veri azionisti: Giovanni Agnelli, il Senatore; suo nipote Gianni Agnelli, l’Avvocato; e suo nipote John Elkann.

 

JOHN ELKANN - MONTEZEMOLO - SERGIO MARCHIONNE

Romiti venerava la memoria di Valletta. Si convinse che il Ragioniere “cit e gram”, piccolo e cattivo, gli avesse scritto una lettera dall’aldilà, tramite il sensitivo torinese Rol, piena di consigli per gestire l’azienda (“sono andato a controllare la grafia negli archivi Fiat, era proprio la sua!”). Marchionne e Romiti invece antipatizzarono fin da subito: Cesare gli fece arrivare i suoi consigli più prosaicamente attraverso un’intervista al Corriere, per dire che il sindacato si può battere – come Valletta aveva fatto nel ’55 e lui stesso nell’80 – ma non si può dividere. In ogni caso, nessuno dei tre era un ingegnere, un uomo “di prodotto”, alla Dante Giacosa o alla Vittorio Ghidella, che le macchine le creavano.

SERGIO MARCHIONNE

 

Romiti veniva dall’amministrazione, come Valletta, Marchionne dall’avvocatura; tutti però sono stati uomini di finanza. Ma mentre la Fiat vallettiana prestava i soldi alle banche, quella di Romiti fu legata a doppio filo a Cuccia. Il grande merito di Marchionne è stato restituire alla Fiat autonomia finanziaria.

 

Anche il suo tratto aveva poco in comune con l’establishment italiano. Diretto, sincero, immediato come chi pensa in inglese, era capace di empatia e di umanità. Duro con i dirigenti intermedi, da uomo del popolo aveva simpatia istintiva per la gente. Per lui la vita e il lavoro coincidevano: non a caso si innamorò della segretaria, come molti protagonisti del Novecento industriale: Vincenzo Lancia, Michele Ferrero, lo stesso Valletta.

SERGIO MARCHIONNE

 

In politica fu governativo, proprio come i predecessori, badando a non legarsi troppo a un leader o a un partito. Valletta scendeva a Roma in vagone letto ogni mercoledì sera, per andare a trovare Saragat, La Malfa, talora il Papa, sempre l’amante; poi il giovedì passava dall’Avvocato al Grand Hotel, respingeva l’invito a cena, cavava dalla borsa una mela e un temperino, si rifocillava e riprendeva il vagone letto, in tempo per timbrare a Mirafiori il cartellino numero 1 il venerdì mattina. Romiti si trovò a fronteggiare il Pci e la Cgil al massimo storico, e l’ebbe vinta.

 

SERGIO MARCHIONNE

Per Marchionne l’Italia è stata molto meno cruciale. Con Renzi si scontrò all’inizio, quando gli venne attribuita una frase che un uomo della sua intelligenza non avrebbe mai detto, “Firenze città piccola e povera” (povera la città di Giotto, Dante e Brunelleschi?). Poi fu amore, nel senso che Renzi si innamorò del suo stile brusco, lo considerò un complice della rottamazione, ignaro che quando i politici perdono il potere i manager guardano oltre. Marchionne l’ha fatto pure con Obama, quando ha riportato uno stabilimento in Michigan dal Messico come prova di apertura a Trump.

SERGIO MARCHIONNE

 

E comunque la sua energia era tale da consentirgli di seguire anche la Juve, la Ferrari, i giornali, tutto il grappolo di interessi e passioni che ha fatto della Fiat e degli Agnelli non solo il primo gruppo industriale, ma una sorta di dinastia regnante su un Paese diviso e insicuro di sé. Alla fine Marchionne non ha fondato una sua azienda, non si è preso un pezzo dell’impero, non è andato alla Silicon Valley, non è sceso in politica, non ha fatto nulla di ciò che si era detto sul suo conto: ha lavorato tantissimo, forse troppo, sin quasi a morirne. Riposto il pullover, tolti gli occhiali, ravviato il ciuffo sempre più rado degli ultimi mesi, resta la sua lezione. E per chi rimane si spalanca un’altra incognita, un altro cambiamento, un’altra possibilità. La storia italoamericana continua.

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