L’AZIENDA DIVENTA GAY FRIENDLY - DALLA COOP A INTESA SAN PAOLO E TELECOM: IL PERMESSO MATRIMONIALE ALLE COPPIE OMO DIVENTA LA NORMA - MA 1 GAY SU 3 CONTINUA A SENTIRSI DISCRIMINATO GIÀ DAL COLLOQUIO
Vera Schiavazzi per “La Repubblica”
I simboli sono importanti. Così, quindici giorni di vacanze pagate in busta paga alla voce “congedo matrimoniale” valgono quasi come una legge, e il permesso di un giorno per restare a casa insieme al figlio della tua compagna che ha la varicella sembra una vincita al lotto.
Il “diversity management”, espressione americana e un po’ astratta che indica la capacità delle aziende di “gestire” le differenze tra i propri dipendenti, e dunque di prevenire ogni discriminazione, sta contagiando come un virus anche il mondo del lavoro italiano. E non è troppo tardi, se è vero che fino a ieri un gay (dichiarato) su tre non riusciva a trovare lavoro, e che chi cambiava sesso rischiava di essere messo alla porta.
VERONICA E BENEDETTA DIPENDENTI COOP SPOSATE E CONTENTE
Sono “solo” 25 le aziende italiane che hanno partecipato al “Diversity Index”, il premio che la fondazione Parks, fondata da Oscar Scalfarotto, ha creato per far conoscere le società che si comportano meglio. E recentemente si è iscritta anche la Barilla, dopo la gaffe sulle famiglie, mentre altri grandi gruppi come Intesa Sanpaolo e Telecom si sono avviati spontaneamente sulla buona strada, annunciando di voler equiparare ogni genere di coppia.
Non ci sono solo i congedi matrimoniali, però. Oltre all’uguaglianza tra i figli (non soltanto quelli della coppia, ma anche del compagno o della compagna con cui si convive) gli indicatori internazionali prevedono la conoscenza delle politiche “friendly” per ciascuna azienda, la creazione di un budget autonomo per le politiche di diversity management, la loro comunicazione all’esterno e durante i colloqui per la selezione del personale, e l’utilizzo di questo indicatore nella scelta dei fornitori.
E mentre la polizia britannica, un tempo reputata omofoba come tutti gli altri corpi di pubblica sicurezza, è salita sul podio per la sua correttezza verso i gay, e negli Stati Uniti spiccavano i comportamenti corretti di varie banche e di giganti della rete come Google, in Italia si lavora per accogliere tutti.
Come spiega Dario Longo di Linklaters, studio legale internazionale con sede a Milano: «La vita familiare delle persone Lgbt è spesso invisibile sul luogo di lavoro, con ripercussioni che possono essere negative in termini di carriera. È importante che chi guida un ufficio o un settore conosca i candidati prima di scegliere, e se di uno si sa tutto (moglie o marito, figli, stile di vita) e dell’altro nulla, è più facile che la scelta vada verso il primo…».
Proprio così: per la coppia di donne di Bologna che ha avuto il congedo da Coop Adriatica dopo il matrimonio a New York, così come per i due concittadini maschi che un anno fa avevano ottenuto lo stesso grazie all’Università, l’essenziale non è il congedo, ma il cambiamento.
Poche, pochissime aziende (solo 3 sulle 25 che hanno partecipato al premio per il “diversity index” promosso dalla fondazione Parks che più si occupa del tema in Italia) hanno avuto tra i loro dipendenti un transessuale. Ma non ci sono solo i momenti difficili: oltre ai permessi matrimoniali, concessi ormai da una ventina di imprese italiane anche alle coppie gay che si sposano all’estero, cominciano a spuntare gli sconti sull’acquisto della seconda auto, i regali di Natale, l’estensione della copertura assicurativa.
«Nessuno deve sentirsi escluso — spiega Lars Petersson, numero uno di Ikea Italia — Il nostro diversity management include tutti, dalle differenze etniche o religiose a quelle basate sull’età. Ma, certo, nell’affrontare il tema delle differenze di orientamento di genere ci siamo sentiti incoraggiati dal fatto che il 14 per cento dei nostri dipendenti, rispondendo a un questionario anonimo, ha dichiarato di sentirsi coinvolto dal problema».
E se 25 aziende, quelle che hanno partecipato al premio 2014, possono sembrare poche, provate a fare il confronto con le altre. Sulle prime 1.000 aziende americane, dice la rivista “Fortune”, nessuna ha un amministratore delegato dichiaratamente gay. E in Italia uno omosessuale su tre dichiara di essersi sentito discriminato già al momento del colloquio.