Dario Ronzoni per www.linkiesta.it
Non sarà un’avventura. Ma nelle vacanze delle donne sole, almeno nei pacchetti viaggio forniti dalle agenzie, qualcosa di simile c’è. Oltre all’incontro con l’esotico delle foreste caraibiche, o della giungla africana, è previsto (meglio: suggerito) l’incontro con la compagnia maschile del posto. Giovani, belli e secondo un certo immaginario diffuso in Occidente, prestanti. Il big bamboo: sogno di una mascolinità esotica, immersa nell’ebbrezza del viaggio. Facile, facilissima da ottenere.
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È turismo sessuale femminile? Piano con le parole. Non c’è (ancora) una definizione condivisa per questo fenomeno, che pure conosce una certa diffusione dalla fine degli anni ’80 – fino a riguardare, secondo alcune stime, circa 600mila persone ogni anno. Per studiose come l’americana Deborah Pruitt e la lituana Suzanne LaFont, che ne discutono in uno studio ormai imprescindibile del 1995, non di “sesso” si tratta, ma di una vera e propria “relazione”. Le donne viaggiano in luoghi esotici (di solito i Caraibi, appunto, ma anche il Medioriente, l’Africa nera) e incontrano ragazzi locali con cui intrecciano una vera e propria storia.
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È “romance tourism”, esperienza più ampia e profonda rispetto al semplice “turismo sessuale”, alla maniera maschile. Certo, il fatto che, in ogni caso, sia decisivo il potere economico della donna (in genere occidentale, ma possono essere anche giapponesi, che preferiscono il Nepal) maggiore rispetto al maschio locale, non può però essere ignorato. Come spiegano altre studiose (ad esempio Susan Frohlick), nonostante le fantasie, le dinamiche e le varie complessità, gratta gratta si finisce sempre lì: alla prestazione pagata.
Uscendo dalle diatribe accademiche (sesso o sentimenti?) e si guarda alla realtà, si nota che il meccanismo è più o meno definito. Turiste del Primo Mondo che, in visita in un luogo esotico, si aprono a relazioni più o meno esclusive con ragazzi del posto, ai quali concedono regali (anche nella forma di denaro liquido) e, nei casi più estremi, anche la possibilità di vivere all’estero, sobbarcandosi le spese per viaggi e visti. Spesso il rapporto assume connotati sentimentali e regala l’illusione di vivere una storia romantica, un’avventura che supera i normali percorsi del turista. Così, almeno, è come la pensano le donne. Pochi si chiedono, invece, come la pensino gli uomini locali.
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Come fanno notare Edward Herold, Rafael Garcia e Tony DeMoya, dell’Università di Santo Domingo, il loro punto di vista può apparire diverso. Per certi aspetti, molto più cinico. A scorrere le interviste fatte a vari beach boys (così si chiamano, in gergo) della Repubblica Dominicana, si nota una prima distinzione importante: quando cercano una conquista sessuale tra le turiste, si rivolgono a quelle giovani (di solito tra i venti e i trent’anni) e bionde. Se vogliono soldi, allora ripiegano su donne più mature (dai 40 in su) o sovrappeso. Sanno di giocare sulla loro vulnerabilità.
Il posto migliore per passare all’attacco sono le spiagge. Qui selezionano le turiste meno abbronzate (vuol dire che sono arrivate da poco, e resteranno più tempo) e cominciano a parlare. Sanno che i primi giorni (al massimo due) devono essere sorridenti, gentili e molto “gradevoli”. Spesso portano fiori, si offrono come guide e istruttori di ballo, presentano i loro amici e offrono esperienze della vita tipica del luogo quasi esclusive. Sulla base delle esperienze, continuano gli studiosi, hanno stabilito che le donne più facili sono le canadesi francesi, seguite dalle canadesi inglesi. Poi, al terzo posto, le italiane.
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«Le donne del Quebec sono convinte che siamo preferibili per il sesso», dichiara uno dei beach boys intervistati. Hanno assorbito l’immaginario occidentale sviluppato su di loro: un impasto di vigore virile pre-moderno, quasi primitivo, legato alla natura. «Essere neri è meglio, è più esotico», dice un altro beach boy. E lo sfruttano.
Non a caso il rapporto con la turista, anche se fondato su una remunerazione economica, prevede (quasi) sempre che «la donna si lasci “spazzare via” dal partner, piuttosto che affermare il proprio potere», spiegano gli studiosi. Questo perché, nell’immaginario della viaggiatrice, in quel mondo esotico e immaginario il potere è associato alla virilità: assecondarlo significa godere appieno dell’esperienza della vacanza, nel modo più autentico. Significa entrare a far parte in un mondo diverso, lontano da quello conosciuto, rispettandone le regole. Anche quelle immaginarie.
Come sanno anche i beach boys, è meglio non parlare di soldi. Non sta bene, e soprattutto disturba l’illusione di un rapporto romantico. Quando servono però, hanno sviluppato tecniche efficaci. Ad esempio, fingono di offrire la cena per mostrare che, in realtà, non hanno davvero i soldi per farlo. Le turiste reagiscono fornendo, sottobanco, la cifra necessaria. E anche di più. Oppure, quando la conversazione (i beach boys imparano a sostenerle in modo accettabile in almeno quattro lingue) finisce su argomenti come lavoro e impiego, è uso fingere uno sguardo triste e turbato. Le turiste reagiscono, il più delle volte, offrendo denaro.
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Quando si arriva al rapporto sessuale, il locale sa che deve adeguarsi a un immaginario preciso (che, del resto, essendo molto lusinghiero sulla sua virilità, non ha faticato a fare suo), promettendo esperienze sessuali «ricche». Scendendo nel dettaglio, fanno molta attenzione al piacere della donna. Accontentano ogni richiesta e si preoccupano degli orgasmi. Per loro è un dovere: quando non sono attratti dal partner, «si concentrano sul viso, o su una specifica parte del corpo della donna». Oppure «non guardano da nessuna parte, e pensano ad altro».
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Secondo Jesus, di Puerto Viejo, in Costarica, «se una donna prende la mia energia, mi deve qualcosa in cambio». Il senso della frase è più complesso di quanto possa apparire. L’energia è, senza dubbio, quella impiegata nel rapporto sessuale. Ma ciò che una donna (una turista) prende a quelli come Jesus, non è “l’energia” intesa come prestazione sessuale: è di più, e somiglia molto al concetto di “esclusiva”.
I beach boys, a differenza delle prostitute, non mercanteggiano sul sesso, ma sull’intimità, che è più questione più ampia e, secondo la mentalità occidentale, non può essere condivisa al di fuori della coppia. Appena le donne vedono in pericolo l’intimità, cioè il senso della coppia, di fronte, ad esempio, alla minaccia del loro prescelto di andare con un’altra, sono disposte a pagare pur di tenerselo stretto. I boys lo sanno e, in cambio, regalano un rapporto romantico, senza dubbio intimo. Per essere più precisi, lo vendono.
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Forse, allora, è giusto parlare di “romance tourism”, come sostengono Pruitt e LaFont. Non è solo sesso (ma quando mai lo è?) quello che le donne cercano in questi luoghi esotici. Lo trovano pagando, sì, e ne hanno in cambio una storia profonda e intensa. Ma c’è un problema: alla fine il conto non torna davvero.
Come spiega Susan Frohlick, uno dei rimproveri dei beach boys nei confronti delle donne straniere, è che «alla fine, se ne vanno». È una lamentela singolare: il turista, per definizione, riparte. Eppure è proprio questo il punto: con la loro mobilità, semplice e privilegiata, i viaggiatori occidentali rivelano, al di là delle esperienze sentimentali ed erotiche, la profonda differenza sociale tra i due mondi.
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C’è chi è libero di spostarsi, e chi no: molti dei beach boys non lasciano i Paesi d’origine, sia per ragioni economiche che burocratiche. Quando le donne partono, la cosa diventa chiara. E allora, che sia sesso o romaticismo, poco importa. Ciò che rimane, al di là delle fantasie e delle delusioni, è l’ombra, sempre sgradevole, dello sfruttamento.