CIMITERO MEDITERRANEO – SOLO IN TRE AVEVANO UN GIUBBOTTO. COSÌ SONO MORTI DI FREDDO IN 29 SUL GOMMONE CHE LI HA SALVATI – NELLE MUTANDE ROTOLI DI BANCONOTE E I NUMERI DI TELEFONO DA CHIAMARE
Laura Anello per “la Stampa”
Per loro, abituati a esaminare corpi mutilati, bruciati, gonfi d’acqua, il compito questa volta è stato perfino più straziante. «Intatti, senza un graffio, sembrava che dormissero. Ventinove ragazzi uccisi dal freddo». Loro sono gli uomini del Gabinetto regionale della polizia scientifica, appena rientrati a Palermo dopo avere esaminato i cadaveri dei migranti assiderati nel viaggio di ritorno sul gommone della Guardia costiera di Lampedusa che era andato a prenderli nel mare in tempesta. A oltre 120 miglia dall’isola e a un tiro di schioppo dalla costa libica.
Il mare in tempesta
Tirati a bordo vivi, felici della morte scampata in mare, pronti a fare a pugni per salire prima degli altri sulla motovedetta della salvezza. Una barca di 27 metri, dove al coperto possono stare non più di dieci uomini, diventata la loro tomba. Temperatura di 3 gradi, mare forza 8, vento a 60 nodi, il mare che entrava dentro a ogni onda, nessun riparo se non la temporanea ospitalità a turno nel vano della tolda di comando, la coperta isotermica come un orpello inutile.
«Solo tre di loro indossavano giubbotti - raccontano gli uomini della Scientifica - gli altri avevano addosso tutto il guardaroba che possedevano, come fanno sempre i migranti che non possono portare bagagli. Biancheria, magliette, golf, pantaloni, uno strato sopra l’altro. Ai piedi al massimo ciabatte. Tutto inzuppato d’acqua, abbiamo dovuto faticare per togliere i vestiti ed esaminare i corpi alla ricerca di qualche elemento utile per l’identificazione: una cicatrice, un segno particolare...».
Le tasche piene di biglietti
Ma i 29 morti di freddo - tranne un ivoriano di 31 anni che aveva con sé la carta d’identità ed è riuscito a salvare almeno il nome - avevano addosso ben poco di particolare. Una sfilata di corpi intatti, qualcuno con una mazzetta di euro nascosta nelle mutande, qualcun altro con un biglietto con i numeri di telefono da chiamare all’arrivo.
I soccorritori si sono resi conto solo all’arrivo che erano morti, credevano che dormissero. Soccorritori che hanno messo in gioco la loro stessa vita e hanno fatto rotta verso Lampedusa, con condizioni del mare proibitive, nonostante la Libia fosse a poche miglia. Avrebbero potuto chiedere al Comando generale l’autorizzazione a riparare nel porto più vicino e restare alla fonda, come vuole la legge del mare. In un paio di ore di navigazione si sarebbero messi tutti in salvo. E invece sono tornati indietro, affrontando un viaggio di oltre 20 ore contro le sei dell’andata. E con un motore mezzo in avaria.
La tragica scoperta
Sono in tanti, sommessamente, con il rispetto dovuto a gente che ha rischiato di morire, a dire che è stato un errore, mentre altri sostengono che non ci fosse altra scelta: la Libia è un Paese nel caos, senza più interlocutori affidabili. Salvatore Caputo, 66 anni, infermiere volontario del Cisom, il corpo di soccorso dell’Ordine di Malta, era a bordo di quella motovedetta.
«Siamo partiti verso le tre del pomeriggio di domenica - racconta - dopo avere ricevuto l’allerta dalla centrale operativa e siamo arrivati nei pressi del primo gommone verso le otto e mezza di sera, con il vento che soffiava a 75 chilometri orari e i naufraghi che si accalcavano e si calpestavano per salire a bordo per primi.
Dopo qualche ora, verso le 4-5 di mattina, il primo di loro non ha retto al freddo e agli sforzi del viaggio ed è morto». Via via, è toccato agli altri 28, nelle ore interminabili del viaggio verso le coste italiane. «Solo una volta, arrivati a poche miglia dal porto di Lampedusa - aggiunge Caputo - è stato possibile iniziare la conta dei cadaveri. Siamo approdati lunedì pomeriggio, ho avuto una crisi di pianto. Sono crollato, come molti vicino a me».
Le bare senza nome
Le bare sono arrivate ieri a Porto Empedocle, accolte dal prefetto di Agrigento Nicola Diomede. Saranno tumulate nei cimiteri del comprensorio che hanno risposto all’appello della solidarietà. Dentro le bare i ragazzi sono nudi, i loro vestiti laceri e duri come il cartone messi in una busta al loro fianco: difficile perfino rivestirli dopo l’esame dei cadaveri. Gli uomini della Scientifica hanno scattato fotografie, hanno preso le impronte digitali, estratto il Dna, tolto e schedato i pochi oggetti che avevano con sé.
Reperti che saranno portati nel laboratorio dell’antico palazzo in via San Lorenzo, periferia di Palermo, che ospita il Gabinetto regionale della polizia. Accanto a quelli dei 366 morti del 3 ottobre 2013, nel mare dell’Isola dei Conigli. Ancora in gran parte fantasmi, senza nome né storia.