Michael Ignatieff per “la Repubblica”
Francis Fukuyama diventò famoso all’improvviso nel 1989 con il saggio The End of History? ( poi elaborato in La fine della storia e l’ultimo uomo ), dove sosteneva che la storia così come la conoscevamo era finita con la vittoria del capitalismo liberaldemocratico sul comunismo. In realtà le sue tesi non erano così trionfalistiche come qualcuno oggi ricorda. Fukuyama si domandava, con nietzschana malinconia, se i cittadini del nuovo Occidente egemone avrebbero perso il loro scopo spirituale e morale ora che il conflitto a tutto campo con il comunismo si era concluso.
È vero che il capitalismo ha vinto nel 1989 (nessuna alternativa credibile è emersa dopo di allora), ma non è vero che ha portato la democrazia liberale. I sistemi di mercato si sono rivelati politicamente promiscui, pronti ad accoppiarsi senza scrupoli con sistemi politici di ogni sorta, dalle democrazie nordiche alle meritocrazie alla Singapore. Nella Cina di Xi Jinping e nella Russia di Vladimir Putin, la democrazia liberale occidentale ha trovato un concorrente che Fukuyama non aveva previsto: Stati che sono capitalisti in economia, autoritari in politica e nazionalisti nell’ideologia.
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Fukuyama ha appena completato il secondo di due voluminosi tomi sulla storia dello sviluppo politico dagli albori della civiltà ai giorni nostri (il primo volume, The Origins of Political Order: From Prehuman Times to the French Revolution , è uscito nel 2011). Lungi dall’abiurare le posizioni precedenti, lo studioso nippoamericano sembra voler raddoppiare la sua scommessa sulla tesi originaria della democrazia come destino inevitabile della storia.
Dopo aver ripercorso lo sviluppo politico delle società in ogni parte del globo (il secondo volume, Political Order and Political Decay: From the Industrial Revolution to the Globalization of Democracy , è lungo 672 pagine), Fukuyama giunge alla conclusione che sì, «il processo di sviluppo politico ha una direzione chiara».
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La democrazia è la destinazione finale della storia politica, dice, e «le prospettive per la democrazia a livello globale rimangono incoraggianti ». L’elemento nuovo della sua analisi, assente nel saggio del 1989, è il ritratto impietoso dello stato della democrazia americana. Una classe media in declino, una disuguaglianza di reddito che non fa che aumentare, interessi privati smisurati e lo stallo generato dalla contrapposizione politica hanno prodotto, secondo lo studioso nippoamericano, «una crisi di rappresentanza» che sta convincendo milioni di americani che i loro politici non li rappresentano più.
È un giudizio diffuso, ma Fukuyama lo contestualizza efficacemente, riprendendo una lunga tradizione di pessimismo storico (familiare già agli stessi Padri Fondatori) sulle sorti delle repubbliche. Non sempre crescono e prosperano, come ammoniva Madison, possono anche sfaldarsi e imboccare la via del declino. Pur essendo ottimista sul futuro della democrazia, Fukuyama vuole che gli americani si sveglino e comprendano che anche la loro democrazia, come altre democrazie e repubbliche in passato, potrebbe colare a picco.
La separazione dei poteri disegnata dai Padri Fondatori può generare risultati positivi solo quando il grado di fiducia reciproca fra gli avversari politici è tale da consentire l’approvazione delle nomine, il sostegno reciproco dei provvedimenti di legge e la pratica dell’arte tanto sordida quanto indispensabile del compromesso politico. Quando lo spirito di fiducia viene meno, il risultato non è una democrazia, ma una vetocrazia, termine coniato proprio da Fukuyama.
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Troppi attori politici — tribunali, commissioni parlamentari, gruppi di interesse, commissioni indipendenti, autorità di regolamentazione — hanno acquisito il potere di opporre un veto ai provvedimenti; e pochi, troppo pochi, hanno il potere per fare le cose. Le conseguenze disastrose di questa paralisi sistemica sono diventate evidenti: una democrazia che non riesce a unire le forze per risanare il disavanzo, ricostruire le infrastrutture, coprire il crescente fabbisogno di spesa per gli anziani o ricostruire il sistema fiscale per renderlo più semplice, più progressivo e più equo.
La destra americana di oggi non ha nessuna soluzione per la paralisi: la sua strategia, consistente nell’«affamare la bestia», non tiene conto che una regolamentazione ben fatta è indispensabile per l’efficienza di qualsiasi economia capitalista. Il fronte progressista, sempre secondo Fukuyama, è altrettanto in difetto: ingolfare lo Stato americano di misure contraddittorie e prive di copertura serve solo a ridurre la fiducia dell’opinione pubblica nella capacità dello Stato di servire in modo equo ed efficiente gli interessi dei cittadini.
L’elemento che distingue l’analisi di Fukuyama dalle polemiche di destra e di sinistra è quando dice che questa crisi di efficacia del Governo è il prodotto di «troppo diritto e troppa “democrazia” rispetto alla capacità dello Stato americano». Negli Stati Uniti, spiega, esiste una tradizione, consolidatasi già prima della Rivoluzione, di adversarial legalism , una visione del sistema legale e legislativo che assegna l’ultima parola su questioni di interesse pubblico ai tribunali più che al Governo.
Quello che chiede Fukuyama è quello che dovrebbe chiedere la maggioranza degli americani: uno Stato efficiente, reattivo, competente. Fukuyama è risoluto nel suo ottimismo sulle possibilità di una riforma di questo tipo. «Io non penso che ci sia una “crisi di governabilità” nelle democrazie consolidate», scrive. Theodore Roosevelt combatté i grandi monopoli, Wilson attuò riforme progressiste, Franklin Delano Roosevelt creò il moderno Stato liberal: se loro ci sono riusciti, insiste Fukuyama, potranno riuscirci anche i leader futuri.
Si lava però le mani riguardo agli ostacoli pratici, che sono enormi. In che modo un leader politico possa riuscire a mettere insieme una coalizione di interessi e di cittadini forte abbastanza da strappare il potere di veto a chi lo esercita non è affatto chiaro. Ma Fukuyama dimostra che chiunque sia determinato a riformare la democrazia americana farebbe bene a cominciare leggendosi il suo ultimo libro.