DOPO LA STRAGE DELL’11 SETTEMBRE, L’ALLORA LICEALE OMAR MATEEN FESTEGGIÒ E GRIDÒ DI GIOIA: LO HANNO RACCONTATO AL “WASHINGTON POST” I SUOI EX COMPAGNI DI CLASSE - NELL’ASSALTO SI E’ DIMOSTRATO SPIETATO, ADDESTRATO, ORGANIZZATO. DA CHI? DOVE?
Federico Rampini per “la Repubblica”
OMAR MATEEN CON LA MOGLIE E IL FIGLIO
E’ l’11 settembre 2001. Nel liceo della Florida Martin County High School gli studenti osservano in diretta tv l’attacco alle Torri Gemelle. Quando il secondo jet si schianta, tutti i ragazzi restano impietriti. Tutti, meno uno. Che comincia a saltare e gridare di gioia. Si chiama Omar Mateen. Quasi 15 anni dopo sarà lui a fare strage nel Pulse Club. L’inquietante episodio è rivelato e confermato da tre fonti, tre compagni di classe di Mateen: dopo il massacro di sabato hanno dato vita a un chat group su Facebook.
Sitora Yusufiy , MOGLIE DI OMAR MATEEN
Il Washington Post ha raccolto e verificato le loro testimonianze. Emerge così una delle “tre personalità” dell’autore del massacro. Già estremista e filo- terrorista da adolescente? Così lo ricordano quei tre compagni di classe.
Ma schiacciamo il tasto dell’accelerazione veloce, saltiamo avanti di altri dieci anni. Per il
New York Times invece quella di Mateen ventenne è la storia di un “successo iniziale”: buoni studi da esperto di tecnologie per la sicurezza, l’assunzione in una multinazionale britannica che si occupa di vigilanza e protezione, la G4S.
Mateen finirà per lavorare addirittura al metal detector nei controlli di accesso ad un tribunale della Florida, un incarico non prestigioso ma delicato. Per accedere a quella mansione, supera tutti i “background check” federali, verifiche su eventuali pendenze penali, precedenti sospetti, tratti caratteriali pericolosi. Del resto è grazie allo status di guardia giurata che per lui comprare armi è stato ancora più facile. Seconda personalità: l’insospettabile.
A metà fra queste ricostruzioni c’è la terza versione su Mateen. O meglio, quella zona grigia e ambigua dove probabilmente si situa la verità. La ex moglie lo descrive come psicologicamente instabile e violento: la causa del divorzio. Qualche ex collega conferma: «Litigioso, irascibile, spesso parlava di uccidere qualcuno». Ma in alcune versioni a scatenare le ire sarebbero atteggiamenti razzisti e offensivi dei compagni. Il padre immigrato dall’Afghanistan, che pure ha simpatie per i Taliban, esclude il movente religioso, descrive il figlio sconvolto alla vista di “uomini che si baciano”.
Poi c’è tutto quello che è stato ritrovato nella sua casa di Fort Pierce, 160 km da Orlando: un libro dal titolo “Being Palestinian make me smile” (essere palestinese mi fa sorridere). In cucina due manuali sull’Islam, intitolati “Chi è Maometto?” e “Questioni cruciali nella vita di un musulmano”. Ci sono anche giocattoli (Hello Kitty), vestitini e altri oggetti personalidella sua bambina.
STRAGE DI ORLANDO - OMAR MATEEN
Inquietante analogia coi coniugi-killer di San Bernardino, e con la loro cucina piena di pappe per bambini: anche Omar sembra aver lasciato casa con l’idea di tornarci presto. Che non avesse per forza la vocazione al suicidio lo conferma quel tentativo – fallito – di comprare oltre alle armi un giubbotto antiproiettile. Respinto. Se vuoi sparare in Florida la legge ti permette tutto, difendersi è più complicato.
Ma le tre versioni sulla personalità di Mateen devono combaciare con quel che è accaduto nelle tre ore di assalto e poi di assedio al Pulse Club. Il capo della polizia di Orlando, John Mina, descrive minuziosamente i vari scontri a fuoco, e le conversazioni fra il terrorista e le forze dell’ordine: «Nel primo conflitto, affronta il poliziotto in borghese all’ingresso del locale. Poi entra e spara a raffica. Arrivano le teste di cuoio e resiste: si barrica in una stanza con gli ostaggi. Cominciano le tre ore dell’assedio. Fa tre chiamate al 911, nelle prime due riattacca, alla terza dichiara la fedeltà all’Is e ricorda i terroristi ceceni della maratona di Boston. Prima dell’assalto finale, con noi ha delle conversazioni. E’ calmo, freddo». Un terrorista spietato, addestrato, organizzato. Ma da chi? Dove?
A cercare di disegnare un ritratto “certo”, e meno schizofrenico, ci prova da 48 ore l’Fbi. Con tanto imbarazzo. L’agente speciale Ronald Hopper che guida le indagini federali deve prima di tutto giustificarsi per l’incredibile fiasco: due volte nel 2013 e 2014 il killer fu interrogato dall’Fbi e rilasciato.
«La prima volta fu dietro segnalazione dei suoi colleghi con cui si sarebbe vantato di contatti con Al Qaeda, poi con HezbollaH. A noi disse che aveva detto quelle cose solo per rabbia, perché lo discriminavano. Poi ancora, l’attenzione del Fbi fu attirata dal fatto che frequentava la stessa moschea di un terrorista- suicida, partito dalla Florida per andare a combattere in Siria con il Fronte Al Nusra. Lo interrogammo, ma fra i due non c’era alcuna connessione».
Ancora adesso, come allora, l’Fbi brancola nel buio. Chi era davvero l’enigmatico Omar? «Non abbiamo capito quale fosse il suo movente, né se abbia svolto un ruolo l’odio anti-gay. Si è radicalizzato da solo, probabilmente su Internet. Finora non c’è traccia che abbia ricevuto istruzioni o direttive dall’esterno».
E infine l’agente speciale Hopper fa un tuffo nella psicopatologia: «Menti malate e contorte spesso cercano una scorciatoia verso la fama». Di qui una decisione, mutuata da altri precedenti nell’anti- terrorismo: «Non pronunceremo più il suo nome». Come se bastasse trasformarlo in un anonimo (dopo 48 ore di tam tam globale dei media) per prevenire ogni tentazione di emularlo? Eppure la decisione dell’Fbi viene immediatamente rispettata da tutti: sia Barack Obama sia Donald Trump smettono di pronunciare quel nome.