Gabriele Romagnoli per “la Repubblica"
Anni fa, sul golfo di Aqaba, nella penisola del Sinai, due ragazzi stavano pescando pigramente, chiacchierando nella lingua comune. Uno era del posto, l'altro ci era venuto in vacanza. Quello indigeno conosceva ben poco del mondo al quale si era di recente affacciato.
Notando un accento nel compagno di passatempo domandò: «Ma tu di dove sei?». L' altro rispose: «Israele». Il primo lo guardò sorpreso: aveva due occhi, un naso, una bocca, parlava e pensava come lui. Poi prese un arpione e glielo conficcò nel petto, prima di allontanarsi lentamente verso il deserto.
Nel farlo continuava a rimuginare non tanto sull' atto compiuto quanto sulla stranezza per cui quel ragazzo proveniente da quel che definivano "entità sionista" non avesse caratteristiche disumane come aveva creduto. Di certo le aveva occultate e ora si sarebbero rivelate, deve aver pensato. Gli altri sono spesso diversi da come ce li eravamo immaginati: la sorpresa più grande è che spesso non sono affatto diversi da noi. Ce ne eravamo lasciati convincere. Se così non era, sai che delusione.
Il momento critico per l' esistenza di un pregiudizio è quando si ritorce e scopriamo che si applica anche a noi stessi. Per dire, parlo un inglese imperfetto e ho la voce profonda. In America mi domandano se sia russo. Rispondo: no, italiano. Replicano: ma dai, così alto? Non sono bastati Belinelli, Bargnani e Gallinari a convincere che esistano italiani sopra il metro e sessanta. Quasi un secolo dopo siamo ancora al titolo dedicato dal Miami Herald a Giuseppe Zangara, l' emigrato che sparò al neoeletto presidente Franklin Delano Roosevelt, descritto come uno gnomo di pelle scura e carattere violento, in poche parole e a tutta pagina: "Tipico della sua razza". Ma si sa: "gli americani sono rozzi".
Leggi i giornali di questi giorni: l' universo maschile nordafricano pensa che la donna bianca sia "disponibile" e fatti come quelli di Colonia fan credere quasi a tutti che ogni musulmano sia un molestatore. Il problema, si sostiene, è l' ignoranza. Fino a un certo punto, se anche un premio Nobel (per la medicina) come Timothy Hunt se ne uscì portando nella valigetta lo stereotipo che gli costò la cattedra: «Le donne in laboratorio sono un problema: se le critichi si mettono a piangere».
Non si rendeva conto che stava cacciandosi nei guai? Probabilmente no: il pregiudizio scivola di bocca, non sfonda porte, ma passa sotto la soglia d' attenzione, come un soffio. È leggero, perché inconsapevole: abitava all' interno da tanto tempo che il proprietario di casa manco l' ha notato, non era una macchia sul tappeto, ma il tappeto stesso.
Sennò perché Stefano Eranio, che da calciatore al Milan aveva necessariamente dovuto apprezzare l' intelligenza di Gullit e Desailly, da commentatore alla tv svizzera, guardando il romanista Rudiger, avrebbe detto: «I neri sono così: forti, ma quando devono pensare poi fanno errori». Verrebbe da dire che i bianchi, invece, li fanno quando non pensano.
Tutti noi abbiamo qualche stereotipo in testa e tutti noi (spesso senza rendercene conto) rappresentiamo qualche stereotipo.
La bellezza del lavoro di Yanko Tsvetkov, il disegnatore che ha compilato le mappe dell' Atlante dei pregiudizi è non tanto che fa sorridere (in qualche caso ridere), ma che svela l' assoluta relatività (è il caso di dirlo) di queste convinzioni preconfezionate. Cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi. Rigettano la complessità. Girano intorno agli stessi paletti.
Tsvetkov è bulgaro. E spiritoso. Oddio, come è possibile? Non viene da un popolo di poveracci, tardo comunisti, con ombrelli velenosi, gente che conosce solo il 99 per cento tra le percentuali e terre dove si può svernare con mille euro di pensione pensando di essere giovani nel '56 a Taranto?
Ecco fatto. Noi, come tutti, abbiamo una insana dose di pregiudizi raccattati unendo i puntini di sparse conoscenze. Gli altri replicano nei nostri confronti, ma ovviamente non consideriamo valida la clausola di reciprocità. E dunque: i tedeschi sono "ottusi mangiacrauti pronti a reinvadere la Polonia", ma non si azzardino a fare una copertina sull' Italia con spaghetti e pistola.
Si sa quel che il maschio latino pensa delle donne baltiche, ma l' effetto è che girando con un amico fotografo per le strade di Riga mi sentivo dire: «Italiano? Pappagallo, maiale». E l' ultima volta che sono stato in quel "covo di serpi" che è Damasco, alla stazione delle corriere un mendicante mi ha salutato così: «Vai via, Aldo Moro, Totò Riina, Berlusconi». E via me ne sono andato, solingo.
il mondo visto dagli antichi greci
Per capire meglio la natura dei pregiudizi basta valutare un dato: in massima parte sono spregiativi. Provate a pensarli e ve ne renderete conto: la "civiltà degli scandinavi" e la "velocità dei neri" galleggiano su un mare di popoli, generi, crini a cui si attribuiscono tendenze negative di ogni risma, oltre alla mancata conoscenza del bidet. Si tratta evidentemente di un meccanismo difensivo che da individuale diventa collettivo.
Ogni essere umano punta sulla propria unicità, ma deve fare i conti con i propri limiti. Un modo, il meno intelligente, per stare al passo con gli altri o sopravanzarli, è quello di degradarli. Il pregiudizio è in definitiva un' affermazione di superiorità ottenuta senza studiare, semplicemente svelando l' altrui lacuna e poi rendendola incolmabile nei secoli dei secoli, anche quando fossero trascorse generazioni immuni al passato.
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Che non sia semplice ignoranza è dimostrato proprio dal fatto che anche persone intelligenti vi fanno ricorso, istintivamente, quando si sentono minacciate, o quando smettono di pensare, abbandonano la struttura del dover essere, allungano le gambe sul pouf et voilà: sbracano. In definitiva il pregiudizio è l' inchiostro della seppia. In tutto e per tutto simili a quel mollusco, ci portiamo appresso una sacchetta di liquido insozzante e, di fronte al presunto diverso, azioniamo la macchinetta del fango. Finché, come il ragazzo nel golfo di Aqaba, ci accorgeremo di aver colpito qualcuno che era simile a noi.