IL GIOVANILISMO NON FA PER I GIOVANI! - IN FRANCIA PUNTANO SU JUPPE’, IN INGHILTERRA SU CORBYN, NEGLI USA TIFANO SANDERS - I “MILLENNIALS”, GENERAZIONE DI 20-30ENNI, HANNO CAPITO CHE SONO I NONNI GLI OUTSIDER DEL SISTEMA: I VERI PUNK HANNO LE RUGHE E I CAPELLI BIANCHI
Anais Ginori per “la Repubblica”
Metti una sera in discoteca con il nuovo idolo politico dei giovani francesi. L’appuntamento è in un locale di Montmartre, tra ragazzi che bevono birra e scattano selfie. Finalmente arriva il loro candidato, quello che sperano di lanciare fino all’Eliseo nelle presidenziali del 2017.
Alain Juppé si toglie subito la giacca, resta in maniche di camicia tra gli applausi. È salito a piedi fino al Sacro Cuore, centoventi scalini, e neppure una goccia di sudore. «Molti lo prendono in giro per la sua età, ma è il più moderno di tutti» esulta Matthieu Ellerbarch, 24 anni, presidente dei comitati giovanili per Juppé alle primarie dei Républicains: oltre duecento gruppi in tutto il paese.
L’ex premier ha compiuto 70 anni nell’agosto scorso: se venisse eletto finirebbe il suo mandato a 77 anni. Ma per molti militanti non è un problema. Come non lo è per i ragazzi che sostengono Bernie Sanders, 74 anni, rivale di Hillary Clinton alle primarie americane e che, se vincesse, potrebbe sfiorare gli ottant’anni alla Casa Bianca.
«Almeno con Juppé — continua il sostenitore ventenne — sappiamo che ci sarà un solo mandato e si impegnerà davvero nelle riforme senza pensare a come essere rieletto». L’età non ha impedito neppure Jeremy Corbyn, 66 anni, di vincere l’anno scorso la guida del partito laburista, il candidato sovversivo amato dalle nuove generazioni.
Il giovanilismo non fa per i giovani. Anzi, i Millennials, quella generazione nata tra il 1982 e il 2004, sono la categoria sociologica che sembra più vicina, per valori e affinità, ai senior. Non è solo la politica a dirlo. In Francia, libri di autori novantenni come Edgar Morin e Jean d’Ormesson sono amati soprattutto da lettori sotto ai quarant’anni che vengono alle presentazioni a chiedere autografi. E qualche anno fa il manifesto della rivolta giovanile è stato “Indignez-vous!”, Indignatevi, firmato da Stéphane Hessel, classe 1917.
Tutti pazzi per i nonni, visti più dei genitori come punto fermo in un mondo in tempesta, ponte tra vecchio e nuovo secolo. I punti in comune sono tanti. Come la generazione che ha attraversato le guerre, i Millennials sanno che il futuro non è garantito. Devono affrontare crisi sociali ed economiche, la precarietà, il terrorismo, la minaccia del cambiamento climatico. «È una generazione complessa da decifrare perché è cresciuta in un mondo complesso» spiega Alexandra Jubé, responsabile nell’agenzia di tendenze Nelly Rodi.
Per i sociologi i Millennials sono ancora un’enigma, spesso in bilico tra gli estremi. Individualisti e tolleranti. Distratti ed esigenti. Lontani dalla politica e impegnati in azioni sociali dal basso. Critici del sistema ma non disposti a fare la rivoluzione. Nel lavoro come nella vita, spesso antepongono il privato al pubblico. Negli Stati Uniti sono già dominanti sul mercato del lavoro: 53,5 milioni, più della generazione X e dei baby boomers. «Cambieranno totalmente i codici di consumo e gli stili di vita» prevede l’analista.
Nella visione politica i Millennials sono in cerca della radicalità interpretata meglio dai senior che non da generazioni più vicine, più inclini ai compromessi, cresciute in epoche di benessere e progresso sociale. I nonni sono percepiti come outsider del sistema. I veri “punk”, ribelli e antagonisti, ha scritto qualche giorno fa il Parisien, hanno tante rughe e capelli bianchi.
«I Millennials sono favorevoli alla democrazia diretta, rifiutano l’intermediazione » racconta Anne Muxel, studiosa del centro di ricerca Cevipof di Sciences Po e autrice di un saggio appena uscito, “Temps et Politique”. Come sul lavoro, in cui i ragazzi non riconoscono più l’autorità assoluta, chiedono un’organizzazione orizzontale e non verticale.
Se è vero che molti giovani sono attratti da forze populiste, dal Front National al Movimento 5 Stelle, Muxel osserva una tendenza in aumento per candidati che mettono avanti l’etica, tornando a valori antichi: la tolleranza, l’eguaglianza sociale. La generazione “Me, myself and I”, come cantava Beyoncé, accusata di egoismo, è invece capace di accettare le differenze, senza cedere alla tentazione dell’esclusione.
I politologi Vincent Tiberj e Antoine Jardin parlano di una gioventù “pluralista” perché è mobile nelle scelte, ha abbandonato lo scontro ideologico tra destra e sinistra, e non esprime due sentimenti polarizzanti del dibattito: il rigetto dell’immigrazione e la paura dell’Islam. I “pluralisti”, notano gli studiosi, sono maggioranza tra i giovani, oltre il 60%, soprattutto nella fascia più istruita.
I Millennials difendono un immaginario politico aperto e cosmopolita simile a quello nonni che hanno saputo accogliere e integrare tante ondate di immigrazione, dal dopoguerra in poi.
2.NIENTE COSE MA ESPERIENZE: LA GENERAZIONE SHARING CHE HA IMPARATO A RINUNCIARE AL POSSESSO
Maurizio Ricci per “la Repubblica”
Il futuro è già loro, naturalmente: i Millennials, nati fra il 1980 e il 2000 sono 12,5 milioni in Italia, 160 milioni in Europa, altrettanti negli Stati Uniti. Trovarli, anche uno per uno, è facile ai limiti del ridicolo: negli Usa, ce ne sono 70 milioni solo su Facebook.
I politici stanno, però, scoprendo che prendere i loro voti non è altrettanto facile: per farlo, devono reinventarsi. Ma i problemi veri li hanno quelli che vorrebbero prendere, piuttosto, i loro soldi.
Quattrini sfuggenti, capaci di sbucare dove non ti aspetti e di prendere direzioni dove seguirli è difficile. Per i giganti dell’economia e della società che dominano da sempre i mercati inseguirli, però, è cruciale: solo negli Usa, nei prossimi anni, i Millennials si troveranno in tasca 50 miliardi di dollari in più da spendere.
Ma per le aziende che hanno plasmato la vita e il quotidiano delle generazioni precedenti, i figli dei baby boomers rischiano di essere una scommessa a perdere. Perché hanno cambiato le regole del gioco.
A dicembre, alla fine della Conferenza di Parigi sul clima, ho chiesto alla giovane collega di un piccolo giornale olandese che aveva condiviso con me per una settimana il banco della sala stampa se sarebbe tornata ad Amsterdam in aereo o in treno. Mi ha guardato stranita: «Sei matto, con quello che costano? » ha risposto. «Torno in macchina». «Sei venuta con la tua macchina?» ho chiesto incredulo.
«Ma neanche per idea» ha detto. Ha preso il tablet, ha digitato furiosamente per un po’. Ha aggrottato la fronte. E ha cliccato con un dito. «Mi devo sbrigare — ha concluso — ho trovato un passaggio fra tre quarti d’ora da Place de la Bastille». Tutti sappiamo che la sharing economy ci consente di condividere, per il tempo necessario, un’auto, un taxi, un alloggio. Qualche volta ne approfittiamo. La differenza è che i Millennials ci vivono dentro, lo considerano la scelta ovvia e normale, spesso esclusiva.
Chi sono? «Più istruiti, più colti, più digitali, ma anche più poveri dei genitori», dice una ricerca della Coop sui Millennials italiani. Questo vuol dire consumatori più sofisticati, meno facili da impacchettare nelle tradizionali strategie di marketing. «Finita l’epoca dei percorsi di vita lineari e progressivi», spiega Diego Martone nel suo I nuovi dei dell’Olimpo del consumo.
«Al contrario, tante opzioni, con orizzonti temporali molto limitati e potenzialmente reversibili: si lascia la casa di mamma, ma ci si può anche tornare». Svanita l’idea della famigliola che mette su casa e figli, comprando elettrodomestici e camerette, su cui sono stati costruiti interi castelli di marketing. Infine, una decisa indifferenza al possesso, rispetto all’uso.
Solo il 15 per cento di loro pensa che comprare un’auto o una tv sia una priorità. L’immagine più efficace dell’economia dei Millennials sono Netflix e Spotify: piuttosto che seppellire soldi per tenere a casa un video o un cd, meglio pagare pochi euro di abbonamento per averne a disposizione migliaia a comando.
Il primo totem a barcollare è l’auto. Se un’auto condivisa, dicono gli esperti, sostituisce 9 auto in proprietà, il parco macchine americano rischia di ridursi del 60 per cento in pochi anni. Del resto, meno della metà dei diciottenni americani si preoccupa di prendere la patente. Quindici anni fa era il 65 per cento. Un passaggio in auto si può sempre trovare e, poi, serve sempre meno: la roba si compra online, invece che nei centri commerciali e con gli amici, dice il 54 per cento dei Millennials, ci si sente su Internet.
O li si va a trovare in autobus o in metropolitana: usano il trasporto pubblico 40 per cento più spesso dei loro padri o fratelli maggiori. Forse perché in autobus si può twittare senza problemi. O anche perché vivono più volentieri in città anziché nei sobborghi.
Il boom di Airbnb invece dell’albergo, quando si viaggia, ha attratto molta attenzione, ma il gravitare dei Millennials verso i centri delle città sta per rivoluzionare il patrimonio urbano americano: fra dieci anni, potrebbero esserci 22 milioni di villette vuote, nei sobborghi. Abituati a viaggiare, globalizzati nei gusti, i Millennials stanno anche costringendo i giganti dell’industria alimentare ad una rincorsa senza fine.
Corn flakes senza glutine, nuove linee di prodotto senza coloranti o conservanti, caccia a inglobare produttori indipendenti di birra artigianale o caffè a denominazione di origine controllata.
Nei giorni scorsi, un colosso dei liquori come Pernod Ricard ha deciso di investire in Monkey 47, un esotico produttore di gin distillato con acqua e bacche delle montagne tedesche e erbe asiatiche, nella speranza di catturare i Millennials che, negli ultimi anni, hanno fatto schizzare del 300 per cento le vendite di bevande organiche.
È un nuovo trend che affianca quello, già ben consolidato, dei cibi organici: il biologico ha più che raddoppiato il fatturato dal 2003 ad oggi.