Barbara Ardù Sara Grattoggi per “la Repubblica”
Dalla ribellione al business. Nata come arte sovversiva e di denuncia, la Street Art è ormai un fenomeno di massa. Come il rap, il grunge, la letteratura pulp, è passata dalla controcultura al mainstream. Celebrata da esposizioni nei più prestigiosi musei, ingaggiata dalle amministrazioni pubbliche per riqualificare le periferie.
E, ora, corteggiata anche dai grossi brand, che hanno intercettato il nuovo gusto dei consumatori e hanno deciso di cavalcare l’onda. E così la Street Art, dopo essere entrata a pieno titolo nell’Olimpo delle arti, ha iniziato a farsi strada anche nel mondo del business.
Accompagna convention aziendali, sfreccia sulle strade delle città su nuovi marchi, come la serie limitata della Smart Forfour. Tant’è che Inward, organizzazione non profit che mette in contatto pubblici, privati e street artist, ha lanciato in questi giorni #StreetArt-Factory per portare la Street Art dentro industrie, fabbriche, cantieri e aziende di tutta Italia. «Ormai nei consigli di amministrazione — dice Luca Borriello, presidente di Inward — quello che un tempo veniva visto come un fenomeno negativo inizia a essere accolto con interesse anche perché in tempi di crisi, dove di soldi ne girano pochi, ricorrere alla street art paga».
Non è solo una questione di risparmio, ma di immagine. C’è chi lo fa per rilanciare un marchio, per rinnovare modelli vecchi, per raccontarsi, per integrare e armonizzare la propria presenza nel paesaggio urbano o per attirare clienti. Gli street artist vengono chiamati anche nell’organizzazione di eventi. Lo hanno fatto, tra i tanti, Eni e Enel.
Per Vincenzo Boccia, presidente di Arti Grafiche e candidato alla presidenza di Confindustria, è una passione antica. La sua azienda è stata ridisegnata proprio con un progetto di Street Art.
Chi attraversa il confine tra Campania e Calabria può vedere lungo il paesaggio nove gigantesche B dipinte da creativi urbani italiani. Sono lo sfondo del capannone dell’azienda tipografica. Quando venne lanciato il progetto, Boccia ne spiegò così la filosofia: «I murales sono diventati un “pezzo d’azienda”, lo rivendichiamo con orgoglio ». Di casi simili ce ne sono molti. A Milano, in via Resegone, svetta una ciminiera coloratissima. È dei Fratelli Branca Distillerie, storico marchio, che nel progetto di restyling ha trasformato un elemento architettonico imponente in un’opera d’arte firmata Orticanoodles. Anche Ceres a Torino (San Salvario) e a Pomigliano ha riqualificato muri di periferia.
E, tra i grandi brand della moda, Vuitton ha scelto di collaborare con Ben Eine.
E poi c’è il settore pubblico, in cui per ora sono coinvolti i Comuni, più di 200, che organizzano festival (in Italia sono 15), affittano muri, riqualificano quartieri. Nella capitale è accaduto, ad esempio, a Tor Marancia e a San Basilio, grazie anche al finanziamento della Fondazione Roma. Ma anche i costruttori sono interessati. Una via l’ha già data Claudio De Albertis, alla guidadell’Ance, l’associazione dei costruttori, che nella sua veste di presidente della Triennale ha sempre supportato iniziative di creatività urbana. Ma molti altri, più prosaicamente, stanno cominciando a valutare l’affare.
Perché, ormai in tutto il mondo, ci si è accorti che la Street Art fa lievitare i prezzi degli immobili. Il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano stima che la riqualificazione dei quartieri con opere di arte urbana faccia aumentare i prezzi almeno del 20 per cento. E su alcuni annunci immobiliari comincia a spuntare la scritta “Con vista Street Art”.
Certo, dipende anche dagli artisti. Secondo Collier International Italia alcune proprietà a Bristol e a Londra firmate Banksy hanno aumentato il loro valore di decine di migliaia di sterline. Ma non tutti gli artisti reagiscono allo stesso modo, quando le loro opere nate per denunciare speculazioni in quartieri degradati, finiscono paradossalmente per diventare un fattore di gentrificazione. Celebre il caso di Blu che ha cancellato dai muri di Berlino Brothers e Chain, in polemica con il progetto di riqualificazione.
Ma, nonostante il riconoscimento pubblico e istituzionale, molti street artist continuano a finire in tribunale. Dopo le accuse a Obey, con tanto di breve arresto l’estate scorsa, per atti vandalici negli Stati Uniti, l’ultimo caso è quello di AliCè, condannata poche settimane fa (in primo grado) per imbrattamento dal tribunale di Bologna. La stessa città in cui il 18 marzo si aprirà la grande mostraStreet Art — Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, prodotta da Genius Bononiae (e voluta dal suo presidente, l’ex rettore Fabio Roversi Monaco) e da Arthemisia, che si presenta come la prima grande retrospettiva dedicata alla storia della Street Art. Con i murales “strappati” alla strada per finire nelle sale di Palazzo Pepoli, fra le polemiche e gli interrogativi di chi si chiede se così si possa ancora definire Street Art.
Una domanda che, viste anche le ultime tendenze del mercato, non si può eludere. «Siamo a un punto in cui bisogna fare una riflessione sulla Street Art in sé perché — nata come arte illegale — ha oggi perso questa sua natura ed è come se, in un certo senso, avesse negato se stessa» osserva Sabina De Gregori, esperta dei linguaggi del contemporaneo e autrice di Shepard Fairey. In arte Obeye Banksy. Il terrorista dell’arte (Castelvecchi).
«Sempre più istituzioni stanno investendo nella Street Art, che è ormai entrata nel sistema dell’arte contemporanea — aggiunge De Gregori — Sicuramente una fase è finita e bisogna vedere che forma prenderà ora questa corrente».
Molti street artist, anche fra i più “puri”, vedono con favore, in realtà, l’apertura di musei e gallerie alle loro opere: «La collaborazione con i grossi brand mi sembra più una mercificazione dell’arte — afferma Lex — Ben venga, invece, il riconoscimento della Street Art nel circuito e nel mercato dell’arte contemporanea che è un modo più democratico di dare valore alle opere».
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