NON CI RESTA CHE… RIDERE! - PER L'OXFORD DICTIONARY LA FACCINA CHE PIANGE DALLE RISATE È LA PAROLA DELL’ANNO - ORMAI ANCHE I CLASSICI, DA PINOCCHIO A MOBY DICK, “PARLANO” CON LE EMOJI - “LA NOSTRA COMUNICAZIONE È SEMPRE PIÙ IMMEDIATA GRAZIE ALLE IMMAGINI E HA BISOGNO DI VEICOLI EMOTIVI PER INFLUENZARSI”
Eugenio Giannetta per Avvenire
L'Oxford Dictionary nel 2015 ha scelto come parola dell' anno un pittogramma: l' emoji che piange dal ridere. Quella è stata una specie di svolta. Da lì in poi sono infatti cambiate molte cose.
Il piccolo simbolo creato in Giappone alla fine degli anni '90 significa qualcosa come "carattere in immagine", ed è la naturale evoluzione dell' emoticon, ovvero l' espressione facciale creata attraverso composizioni di punteggiatura.
Però c' è di più, perché i due termini richiamano la parola emozione, fungendo da filtro alla stereotipata freddezza dello schermo e lasciando trasparire il tono di un dialogo digitale.
La promozione di un simbolo a parola, l' uso sempre più frequente delle emoji nelle email, nelle parole del marketing e attraverso tutti i nostri dispositivi, hanno portato alla inevitabile evoluzione di una nuova forma di linguaggio, quasi le emoji possano essere assurte a nuova lingua universale, ma vi sono dovuti limiti.
Anzitutto ogni lingua necessita di un contesto. In secondo luogo di una grammatica. Ad esempio l' ingegnere Fred Benenson ha tradotto Moby Dick in Emoji Dick, qualche tempo dopo su Twitter è spuntato l' account Bible Emoji, con relativo sito per tradurre il proprio versetto della Bibbia, e inoltre le faccine colorate sono finite in mostra al MoMa di New York, ma è sempre mancato un codice univoco.
A questi progetti si aggiunge il gruppo di lavoro composto da Francesca Chiusaroli, docente di linguistica a Macerata, Johanna Monti dell' Università di Napoli, il ricercatore Federico Sangati e il blog Scritture Brevi, che ha portato avanti - grazie anche alla partecipazione di alcuni utenti Twitter - la traduzione di Pinocchio Italiano-Emoji, arrivando a creare persino una sorta di dizionario, l' EmojitalianoBot: «Quello che ci interessava - spiega Chiusaroli - era soprattutto la costruzione di una grammatica e una lingua coerenti.
Ogni giorno per otto mesi ho scritto un tweet con una frase di Pinocchio, e durante il giorno arrivavano proposte di traduzione.
A fine giornata le valutavamo e creavamo una traduzione ufficiale che veniva riversata nel bot. Negli ultimi due mesi di lavoro i tweet erano praticamente tutti uguali, perché si era venuto a creare un codice di riferimento al quale tutti aderivano».
Il prossimo passo sarà la poesia?
«La traduzione della poesia comporta difficoltà superiori rispetto alla prosa. Le emoji sono limitate, non coprono tutte le possibili parole della lingua, ad esempio se abbiamo casa, come traduciamo bottega? A far la differenza sono le combinazioni, che creano in questo modo parole uniche.
La sequenza di casa più attrezzi crea la parola bottega, ma quei due simboli vanno isolati, altrimenti da soli valgono per quello che rappresentano». Chiusaroli prosegue poi sulla questione della grammatica.
«Nessun uomo può inventare una grammatica artificiale che non abbia influenza di una lingua esistente, per cui quando abbiamo pensato a una grammatica semplificata lo abbiamo fatto su base italiana, distinguendo il singolare dal plurale, con un raddoppiamento del segno ogni volta che si incontrava un plurale, oppure futuro e passato con una freccia avanti o indietro.
Ci tengo però a sottolineare che non vogliamo sostituire la bellezza del testo collodiano, è un esperimento linguistico». Resta l' annoso problema della traduzione, il parlare di lingua universale e i possibili fraintendimenti nelle differenti variabili del linguaggio.
Tutto ciò potrebbe essere il naturale sviluppo della tanto decantata civiltà dell' immagine. Non bisogna sottovalutare l' effetto moda, caratteristico della cultura digitale, oltre ai complessi meccanismi di intercomunicazione, ma questa è solo scorza. Sotto c' è molto altro, come spiega ancora Chiusaroli: «La nostra è una società fondata sulla dimensione della scrittura.
Più che parlare la gente guarda, legge, scrive. La comunicazione scritta tra utenti, quella veloce, risente di stati di tensione continua in rete, per ciò è diventato fondamentale accompagnare il testo a segni, punti esclamativi e parentesi per abbassare quella tensione».
Il tema dell' immagine in grado di superare la necessità linguistica in una società di tipo sempre più percettivo, non poteva ovviamente che passare da Federico Vercellone, docente di Estetica all' Università di Torino e autore de Il futuro dell' immagine (Il Mulino, pagine 139, euro 15): «La nostra comunicazione è sempre più immediata attraverso l' immagine e questa comunicazione ha bisogno di veicoli emotivi per influenzarsi.
Con le emoji le immagini che vengono in qualche modo incorporate sono immagini mentali, danno un riconoscimento immediato. Nella tradizione europea i geroglifici sono entità indecifrate, ma proprio per questo acquisiscono un tasso emotivo e comunicativo molto alto.
L' immagine sta diventando una lingua nuova e vecchia insieme - continua Vercellone - Abbiamo ogni giorno a che fare con immagini che creano identità, e l' utilizzo dell' immagine viene sempre più adoperato per identificare se stessi; immagini che si avvicinano sempre più al corpo e sono sempre meno immaginative.
Fa parte della necessità di comunicare in tempi brevi, con forte comprensibilità immediata, emotiva. Potrebbe essere una necessità intrinseca, una forma di semplificazione, ma abbiamo sempre più bisogno di immagini simbolo, dove non c' è contenuto astratto ma ci si propone come persone, tonalità emotive, sfumature del sé in assenza di possibilità di presentarsi fisicamente in un mondo in cui le distanze sono sempre più assolute e vi è bisogno di accorciarle».
Accorciare le distanze significa anche comprendere a fondo le sfumature psicologiche che una emoji può avere rispetto a un' altra al momento del suo utilizzo. Soprattutto se tradotte in una forma narrativa, che di per sé racchiude l' esplorazione dei sentimenti umani attraverso un insieme di sottotesti e interpretazioni.
Due psicologhe, Helen Wall e Linda Kaye, hanno portato avanti una ricerca con Edge Hill University e l' Università Cattolica Australiana sull' influenza psicologica di alcune emoji nel linguaggio: «L' emoji - spiega la dottoressa Kaye - fornisce una panoramica olistica del discorso in un modo che non è possibile ottenere con la lingua scritta.
Quando utilizzate per esprimere emozioni, le emoji possono anche integrare un tono emozionale simile al tono della voce o all' espressione facciale, che altrimenti si perde nella lingua scritta». La domanda iniziale resta però la stessa: si può pensare alle emoji come a una nuova lingua o linguaggio universale?
Così ancora la Kaye: «In alcuni modi può essere un linguaggio universale in quanto i simboli possono essere interpretati senza la necessità di requisiti linguistici. Tuttavia la loro interpretazione può richiedere che siano compresi accanto al linguaggio per poter stabilire il loro pieno potenziale e significato ».
Il limite principale, nonostante il costante afflusso di nuove emoji sul mercato, è l' impossibilità di coprire un ventaglio ampio di espressioni come può essere quello di una lingua. Mancherà sempre l' espressione per quella, specifica, parola, con buona pace dei poeti. Non emoji come sostitute della parola, quindi, semmai connubio tra le due cose.