Carlo Verdelli per ''la Repubblica'' del 9 settembre 2014
“Meglio l’erba dei vicini dei vicini di Erba”. Cioè, Rosa e Olindo, basta il nome. Oltre al doppio ergastolo, cementato da tre gradi di giudizio; oltre all’iscrizione perpetua tra i mostri della porta accanto; oltre ad essere diventati una specie di marchio d’infamia per etichettare coppie odiabili, Rosa e Olindo sono stati anche lapidati dal sarcasmo popolare.
Niente conta che abbiano più volte ritrattato le loro confessioni, attribuendole alle pressioni ricevute in quei giorni funesti. Otto anni dopo la mattanza, resta la scia malata di un ricordo inumano, e una foto incompatibile: Olindo che a un processo, dietro le sbarre, dice qualcosa teneramente a Rosa e lei ride come una bambina felice.
Sulla pietra tombale calata su questi sventurati, si è da poco aperta una breccia. Fine dell’isolamento diurno, che tra una cosa e l’altra (pena accessoria, più la necessità di proteggerli dagli altri detenuti, vista l’infamità del crimine) durava da quando la coppia più schifata d’Italia è entrata in un carcere, 8 gennaio 2007, per non uscirne più. Oggi stanno in due prigioni del milanese, lei a Bollate, lui a Opera, si vedono tre venerdì al mese per due ore, che passano tenendosi la mano.
Olindo Romano, 52 anni, nome ereditato da uno zio alpino scomparso in Russia nel 1943, è più che ingrassato (ha toccato i 119 chili per un metro e 66), cura un orto da caserma ingentilito da una pianta di rose, si tormenta perché gli sta scadendo la patente, come se davvero un giorno potesse tornare a guidare il suo Eurocargo della spazzatura.
Dicono che “non è più in sagoma”, che si fissa sulle cose, che è convinto che prima o poi il signor Frigerio, cioè il testimone che l’ha inchiodato, si ricorderà meglio e lo scagionerà. E poi pensa incessantemente a Rosa, la sua metà, e non è un modo di dire: non ci fosse ancora lei, argine al suicidio, non ci sarebbe più lui. Una simbiosi quasi patologica che include loro e esclude il resto.
Rosa Bazzi, 51 anni, mancina (particolare non secondario, visto che alcune delle vittime riportano ferite inferte da una mano sinistra), petulante, bisbetica, con una ossessione per l’ordine tanto apprezzata dalle signore erbesi che serviva a ore, si è adattata al carcere meglio del marito. Non legge niente e non risponde alle lettere, come invece fa lui, perché non sa leggere né scrivere, nonostante una remota licenza elementare.
In compenso frequenta la sartoria, dove ha cucito un paio di tendine per la cella di Olindo, che resta la sua preoccupazione centrale. Lei, leader della coppia? Di sicuro è Rosa che con le sfuriate e gli insulti (per altro ricambiati) a Raffaella Castagna e al marito Azouz Marzouk ha cominciato a scavare l’abisso dove sono poi precipitate tante vite, compresa la sua.
L’abisso si spalanca lunedì 11 dicembre 2006. Verso le otto di sera, Rosa e Olindo lasciano la loro casetta a pianoterra, scala B, di una ex cascina ristrutturata, venti famiglie affacciate su un cortile chiuso. Hanno un progetto, che poi Olindo spiegherà così: “Non volevamo ammazzarli, solo riempirli di botte”.
raffaella castagna con il figlio youssef marzouk
Fanno una quindicina di metri a sinistra verso il portone accanto, salgono a viso scoperto un piano di scale e in una ventina di minuti sterminano con una sbarra di ferro e due coltelli quattro persone, quasi cinque. Nell’ordine di esecuzione: Raffaella Castagna, 31 anni, figlia inquieta di una delle famiglie bene della città; Paola Galli, 57 anni, madre di Raffaella e nonna di Youssef, 2 anni e tre mesi, trafitto sul divano della sala con due colpi alla gola.
Dopo aver appiccato un incendio nelle due camere da letto, i killer trovano sul pianerottolo i coniugi Frigerio, richiamati dal fumo. Li fanno fuori entrambi, solo che lui si salva grazie a una malformazione alla carotide, lei invece, Valeria Cherubini, 55 anni, finisce straziata, con il suo cagnolino Martina asfissiato ai suoi piedi. In tutto, una sessantina di colpi, tra coltellate e sprangate, con schizzi di sangue che arrivano fino al metro e sessanta.
Completata la spedizione punitiva, siamo intorno alle 20 e 25, mentre la corte di via Diaz 25 si riempie di pompieri, ambulanze, curiosi, Rosa e Olindo tornano nella loro tana (per raggiungerla devono percorrere a ritroso quei 15 metri allo scoperto, ma nessuno li vede), stipano armi e vestiti insanguinati in tre sacchi neri della pattumiera, li infilano (sempre non visti) sulla loro Seat Arosa grigia, scaricano i sacchi in tre diversi cassonetti e poi vanno a mangiare gamberi e bacon a un McDonald’s di Como. Otto euro e 25 il conto.
Timbro dello scontrino: 21.37, un’ora e qualcosa dopo l’ultimo omicidio. Anche se parecchio stretti (mezz’ora di auto, 10 minuti per attraversare la zona pedonale di Como, più il tempo minimo per la cena), gli orari potrebbero forse tornare. O forse no.
Nell’incertezza, inquirenti e giurie passano oltre, come su altre incongruenze, dalla sparizione delle armi usate per i delitti al fatto che i Ris di Parma non trovano tracce di Rosa e Olindo né nell’appartamento della strage né sui corpi o tra le unghie delle vittime (qualcuna di loro, Raffaella per esempio, che era una donna piuttosto imponente, deve aver sicuramente lottato prima di soccombere) e nemmeno nella casa degli assassini; in compenso, dalla Castagna, rilevano impronte non appartenenti ad alcuna delle persone presenti sulla scena del crimine, impronte che però non vengono esaminate e quindi restano “non attribuibili”.
Persino il luogotenente Luciano Gallorini, capo di lungo corso dei carabinieri di Erba, ha un momento di incertezza. Il primo giorno in carcere, Rosa nega tutto davanti a tutti. Poi chiede di lui, gli si butta tra le braccia e singhiozzando implora: mi aiuti, mi aiuti! “Me lo chiese con così tanta passione”, dirà Gallorini, “che per un attimo ho pensato: magari stiamo sbagliando”. Un attimo fuggente.
“La più atroce impresa criminale della storia della Repubblica”, secondo il pubblico ministero Massimo Astori. A commetterla, sempre secondo Astori, oltre a tre Corti della Repubblica, un netturbino corpulento e una minuscola domestica. Sintesi ancora di Astori: “Quei due sono molto più di una coppia. Sono un quadrupede”.
Movente dello scatenarsi del quadrupede: sei anni di liti da ballatoio, con i Romano sempre più intolleranti verso la famiglia di sopra, composta da Raffaella, Azouz, il figlio Youssef, più gli amici, stranieri e no, spacciatori di droga e no, che andavano e venivano a tutte le ore. Troppo chiasso, troppo disordine, troppo .
Esasperati, Rosa e Olindo hanno fatto pulizia, che è in fondo il mestiere di entrambi, sperando poi di farla franca con la storia del McDonald’s. Ma il signor Frigerio, quando si è ripreso dal trauma, li ha riconosciuti, prima lui poi anche lei, loro hanno confessato e in 28 giorni il caso si è chiuso.
Il 10 gennaio 2007, dalla ricca e devota Erba, gioiello della Brianza alta tra Milano e Como, 7 parrocchie per 17 mila abitanti e 23 sportelli bancari (il doppio della media nazionale), si leva un sospiro di sollievo che si estende come un’eco all’intero Paese. Poi, rapidamente, si fa largo un altro sentimento, almeno tra gli erbesi: il disgusto per la vicenda che ha sporcato la reputazione della città.
Quando pochi mesi dopo la tragedia, Pino Corrias va lì a presentare il suo documentato e dolente libro-inchiesta “Vicini da morire” (Mondadori, ottobre 2007), a differenza che in molte altre piazze, trova ad accoglierlo una sala vuota.
“Io vengo da Reggio Calabria e là c’è omertà perché la gente ha paura. Qui lo stesso, ma perché non vuole fastidi”. Fabio Schembri, 47 anni, avvocato (senza cravatta, capellone, gran fumatore), è una mosca bianca e forse avventata. Si aggira tra via Diaz e la vicina piazza Mercato, da dove secondo lui potrebbero essere passati i veri killer, con una frustrazione che il tempo non attenua.
Insieme alla collega Luisa Bordeaux, è tra i pochissimi ad essere convinti che Rosa e Olindo siano innocenti. “Erano i tonti del villaggio, non avrebbero avuto né la testa né la forza per combinare quel disastro. Il problema è che le altre piste possibili sono state archiviate in fretta, neanche battute in verità, una voragine investigativa. Ma un colpevole bisognava trovarlo. E quei poveri cristi, senza parenti né amici, indifesi e indifendibili, erano perfetti. Pensi che il giorno dell’arresto è Olindo che telefona ai carabinieri perché la corte è piena di giornalisti e lui teme che possano danneggiargli il camper parcheggiato davanti alla lavanderia, e Rosa chiama la signora dove doveva andare a servizio profondendosi in scuse perché era costretta a saltare l’impegno. I carabinieri, che già li stavano andando a prelevare, li scaricano davanti al Bassone di Como. Olindo li guarda stupito: in carcere? Io e la Rosa? Ma perché? Risposta: buona fortuna”.
Schembri è il secondo avvocato di Rosa e Olindo, quello che li ha accompagnati in tutti i processi, perdendoli. Gratis, comunque, visto che il poco che i due avevano, compresa la casa valutata 70 mila euro, è stato venduto per risarcire le parti civili.
Quanto al primo avvocato (assegnato d’ufficio), Pietro Troiano, dura sei mesi, punta sulla perizia psichiatrica e sul rito abbreviato “data la sovrabbondanza di prove”. La prima non la otterrà, né lui né il suo successore, ed è abbastanza sconcertante, visto il caso. Il secondo nemmeno, perché nel frattempo i suoi assistiti cominciano a maturare il sospetto di essere stati incastrati e cambiano strategia. Ma incastrati da chi?
Anche se è un calcolo senza senso, le persone che nell’inferno brianzolo hanno perso di più sono Carlo Castagna (figlia, moglie, nipotino) e Azouz ( moglie e figlio). Due uomini agli antipodi. Il primo, 70 anni, è un mobiliere superlativo in tutto: soldi, fede, filantropia. Vox populi: a Erba non si muove foglia che il signor Carlo non voglia.
Sposato dal 1968 con Paola, donna altrettanto perfetta e pia, hanno tre figli, due maschi (Pietro e Giuseppe) di 44 e 40 anni, impegnati a seguire le orme di tanto padre, e la più piccola, Raffaella, “una che vuole salvare il mondo”, frequenta centri sociali e immigrati, diventa amica di “quelli che vendono le zebre al mercato”. A 23 anni esce di casa, papà gli compra la casa di via Diaz, poi le cose si complicano quando non solo si innamora di Azouz, un tunisino che vive ai margini della legalità e oltre, ma lo sposa pure e ci fa un figlio, nato il 6 settembre 2004.
l interrogatorio in ospedale di mario frigerio
E’ Youssef, così descritto dallo zio Pietro nel libro di Corrias: “Era una specie di cartone animato, bellissimo, allegro”. Un piccolo ponte fragile, destinato magari nel tempo a sanare la rottura tra l’erede ribelle e la parte maschile dei Castagna, rottura che invece di rimarginarsi si dilata: Azouz spesso picchia e maltratta Raffaella, finisce anche in carcere per spaccio di droga (sconta solo 16 mesi grazie a un indulto) ma lei annuncia lo stesso alla famiglia che vuole trasferirsi presto in Tunisia, e con la parte di patrimonio che le spetta.
Nel periodo della strage, il ponte prova comunque a farlo nonna Paola, che prende il nipotino quando la figlia è al lavoro (un part time pomeridiano in una casa per anziani disabili a Magreglio), gli prepara la cena, poi lo riporta a sera dalla figlia. Così anche “quella” sera, solo che stranamente Paola lascia a casa borsetta e telefonino, guida in ciabatte e dimentica la porta della Lancia K aperta nel cortile di via Diaz. Dove sta correndo? Il marito di Raffaella ne ha combinata un’altra?
Azouz Marzouk ha 26 anni all’epoca. Viene da una buona famiglia tunisina di Zaghouan, 30 chilometri dal mare di Hammamet. Emigra sognando la Germania, finisce in Brianza dove già sta il fratello Salem, che gli somiglia come un gemello. Incontra i giri della droga e Raffaella, non separandoli.
Visto il tipo, i precedenti penali, la risaputa violenza di lui verso la moglie, il procuratore capo di Como Alessandro Mario Lodolini, a botta calda, annuncia: “Sospettiamo che l’autore dei delitti sia il marito”. Peccato che “il marito” sia da una settimana in Tunisia dai genitori. Una partenza disastrosa delle indagini che metterà ansia e fretta a chi investiga.
mario frigerio parla di olindo
Si ipotizzano tre piste: rapina, vendetta trasversale nel mondo dello spaccio, faida familiare. Muoiono tutte sul nascere quando Carlo Castagna, dopo aver commosso l’Italia ai funerali (“Perdono chi ha ucciso, lo devo a Dio e ai miei morti”), butta lì al luogotenente Gallorini il nome di Olindo: “La sera del fatto ebbi modo di vederlo tra la gente e da allora ho un cruccio che mi fa pensare a lui”.
Il cruccio diventa molto più pesante quando Mario Frigerio, oggi settantenne, ripete quel nome: Olindo. In realtà non ci arriva subito. Appena si riprende in ospedale, il 15 dicembre, dice di non conoscere chi l’ha colpito e fornisce un identikit che porta altrove: tanti capelli corti neri, occhi scuri, carnagione olivastra (Olindo ha pochi capelli radi, occhi verdi, pelle bianco latte).
Dieci giorni dopo, però, la memoria cambia: “E’ stato un vicino, l’Olindo. Non volevo crederci ma adesso mi è chiaro”. Fatalità vuole che proprio lo stesso giorno, il 26 dicembre, venga rinvenuta una macchiolina sul predellino della Seat dei Romano: il dna è di Valeria Cherubini.
antonino monteleone olindo romano
Con tutto il sangue colato in cortile dopo i getti d’acqua dei pompieri, e con tutto il sangue che gli assassini, per quanto “ripuliti”, devono essersi portati in auto, sembra persino poco che sia resistita solo quella traccia. Comunque, solo quella. A chiusura del cerchio, nel febbraio 2008, quando si sta istruendo a Como il processo di primo grado, sempre Frigerio aggiungerà di aver visto, quella sera, “una seconda persona, una donna, quasi sicuramente Rosa Bazzi”.
Nel maggio 2011, pur confermando gli ergastoli, la Cassazione alza un sopracciglio su queste parole, definendole “oggettivamente vischiose”, e più in generale sull’intera inchiesta: “Numerosi sono i dubbi e le aporie che si addensano sul caso”.
A spazzarli via tutti, dovrebbe bastare, ed è bastata in giudizio, la doppia confessione del “quadrupede” Romano, datata 10 gennaio, 2 giorni dopo l’arresto, un mese dalla strage. Ma anche lì qualcosa stona. Il prima, innanzitutto. Olindo ha appena avanzato alle autorità che l’attorniano richieste insensate: una cella matrimoniale, poi la scarcerazione di Rosa, quindi il suo breve trasferimento in un ospedale psichiatrico, quindi tutti a casa. Il tragico è che deve aver ricevuto qualche tipo di rassicurazione.
Olindo: Ciccia, ho parlato col magistrato. Mi ha detto che se vogliamo fare finire questa storia qui… Di dire la verità
Rosa: Ma non c’è niente da dire, niente. Olli, hanno fatto tutto loro.
Olindo: Loro mi hanno spiegato un po’ la situazione in termini pratici...
Rosa: Olli, non siamo stati noi.
Olindo: Lo so, aspetta, è per tagliare le gambe al toro. Io becco le attenuanti e finisce tutta la storia.
E così Olli taglia il toro. A modo suo, con una ricostruzione che contiene 243 buchi, tra “non ricordo”, errori nel posizionamento delle vittime, nel numero dei colpi, assenze sui punti più insopportabili (“Perché il bambino? Non lo so”). A rileggerla per intero, o siamo davanti a un attore formidabile, e quindi l’ergastolo è ancora poco, oppure un po’ di aporia postuma è giustificabile.
Ne è venuta anche ad Azouz, che intanto si è risposato con una ragazza di Lecco, con cui ha avuto una bambina, e vive da espulso in Tunisia: “Prima pensavo diverso ma mi sono convinto che Rosa e Olindo stanno solo pagando per la loro ingenuità. Prego il signor Frigerio di dire la verità”. Quale altra verità, per esempio?
Il sostituto procuratore di Como Massimo Astori, che all’epoca condusse indagini e accusa, è serenissimo: “Mai avuto un’incertezza. Una tribù ha invaso lo spazio di un’altra, che ha reagito con una vendetta primordiale, conclusa col fuoco. L’unico rammarico è di non aver fatto filmare la Bazzi mentre raccontava come ha sgozzato il bambino, il gesto che ha fatto. Mi creda, da brividi”.
Comprensibilmente, l’avvocato Schembri immagina una scena diversa, che però non è andata in aula. Qualcuno toglie la luce alla casa di Raffaella verso le 18. Una coppia di siriani che abita sotto di lei, sente dei passi leggeri dalle 18.30 alle 20. Se così fosse, essendo la serratura intatta, vuol dire che chi è entrato dalla signora Castagna aveva le chiavi, ha frugato per cercare qualcosa e poi nel buio ha aspettato il suo rientro.
Intorno alle 20, i siriani avvertono un altro sonoro: mobili spostati, urla, lamenti. Sei-sette minuti e di nuovo tace tutto. Poi il fumo dell’incendio, il chiasso sul pianerottolo, che coincide con l’assalto ai Frigerio. Intanto, dall’esterno, l’abitante di un palazzo di via Diaz affacciato alla finestra e un algerino che sta in Piazza Mercato notano la stessa cosa: due extracomunitari fermi tra la via e la piazza, raggiunti a incendio in corso da un uomo con il cappotto lungo fino alle ginocchia e una berretta scura.
All’algerino sembra di riconoscerlo, forse è italiano, certo non l’Olindo, ma al momento del processo non si presenta a dirlo. Era in carcere per droga a Modena, ma nessuno l’ha cercato e quindi è risultato irreperibile. E poi, francamente, la credibilità di uno spacciatore non è altissima.
Su tutta la vicenda pende da due anni un ricorso alla Corte di Strasburgo e, a breve, una richiesta di revisione a Brescia. Intanto Olindo Romano, nella sua cella di Opera, ha studiato una dama rivoluzionaria dove si gioca in tre o anche in quattro. Improbabile, anzi impossibile, come il sì di Strasburgo o di Brescia. Ma per la metà di un “quadrupede”, abituato a pensare sempre e solo per due, un indiscutibile passo avanti.