Milena Gabanelli e Francesca Gambarini per il “Corriere della Sera - Dataroom"
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Ogni anno l' economia mondiale consuma quasi 93 miliardi di tonnellate di materie prime tra minerali, combustibili fossili, metalli e biomassa. Di queste, solo il 9% sono riutilizzate. Il consumo di risorse è triplicato dal 1970 e potrebbe raddoppiare entro il 2050. Secondo il Global Footprint Network, per mantenere l' attuale stile di produzione e di vita, un solo Pianeta non ci basta, ne servirebbe 1,7, ovvero un' altra Terra.
Nel 2018, il giorno in cui abbiamo consumato tutte le risorse naturali che il Pianeta è in grado di rigenerare in un anno, è caduto il primo agosto: mai così presto. È come finire lo stipendio al 20 del mese, ma nessuno ti fa credito per gli altri 10 giorni. E i mutamenti climatici sono legati anche all' utilizzo di materie prime.
Il 62% delle emissioni di gas serra (escluse quelle provocate dal consumo del suolo) avviene durante il processo di estrazione e lavorazione delle materie prime, mentre solo il 38% in fase di consegna o utilizzo dei prodotti.
Che succederà fra 30 anni, quando saremo 9 miliardi di persone e il riscaldamento globale più su di un altro grado e mezzo? Onu, Ocse e governi sono d' accordo: l' unica alternativa per salvare il pianeta è l' economia circolare. A Davos, a gennaio, ne è stato stimato il valore potenziale: 3.000 miliardi di dollari nel mondo; 88 miliardi solo in Italia, con un bacino di 575 mila occupati, secondo l' ultimo bilancio del Conai, il consorzio nazionale degli imballaggi.
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Vuol dire che si può crescere cambiando modello di sviluppo. L' economia circolare in concreto «chiude il cerchio» del ciclo di vita dei prodotti, incrementando il loro riutilizzo, favorendo i risparmi energetici, e diminuendo gli sprechi in ogni settore.
Qualche esempio: oggi in Europa un' auto rimane parcheggiata in media per il 92% della sua «esistenza»; il 31% del cibo viene sprecato lungo la catena del valore, gli uffici in una giornata sono mediamente utilizzati per il 35%-40%, mentre la durata dei manufatti delle nostre industrie non supera i 9 anni.
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Uno dei più autorevoli studi del settore, il rapporto «Growth Within» stilato da McKinsey e Fondazione MacArthur, ha calcolato quanto costa al Vecchio Continente la somma di questi sprechi: 7,2 trilioni di euro. Quanto potenziale ci sia nell' economia circolare lo dimostra il mondo sempre più numeroso delle startup e delle aziende che innovano sui prodotti esistenti e sulla loro modalità di produzione.
Solo rimanendo in Italia, c' è per esempio il filo in nylon riciclato prodotto da Aquafil e usato anche da Adidas per i suoi costumi. Le traverse ferroviarie realizzate con pneumatici dismessi e plastica da rifiuto urbano di GreenRail. Il lanificio Bellucci di Prato utilizza lana 100% rigenerata, e proprio a Prato, dove si lavorano stoffe da oltre mille anni, già nel secolo scorso era stato lanciato il primo (e inconsapevole) modello di produzione sostenibile con la lana rigenerata: materia prima che scarseggiava e che quindi veniva «stracciata» per poi essere recuperata nella produzione di nuovi abiti.
L' azienda bergamasca Grifal produce il cartone ondulato, totalmente riciclabile e così resistente da poter sostituire il polistirolo o altri materiali chimici da imballaggio. Lo scorso giugno l' azienda si è quotata all' Aim, e dopo un solo mese il valore delle sue azioni ha registrato un più 160%. C' è la Novamont, l' azienda italiana che ha creato la plastica biodegradabile, utilizzata sia per le buste della spesa che in agricoltura: i teli per la pacciamatura si «compostano» nel terreno senza lasciare residui nocivi.
gli asini che fanno la differenziata a riace
Contro l' obsolescenza programmata, un' azienda olandese ha progettato lo smartphone Fairphone, costruito per essere riparato: è modulare e ogni pezzo può essere sostituito facilmente. Costa 399 euro e le materie prime non provengono da zone di conflitto. È chiaro che per invertire direzione, l' industria globale dovrebbe riconvertirsi. Ma quanto costa? Gli studi non lo dicono. Alcuni Stati hanno provato a calcolarlo: il Regno Unito stima un costo pari al 3% del suo Pil.
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Eppure i cittadini apprezzano e sostengono le produzioni sostenibili. Secondo l' analisi realizzata da PwC con Centromarca e Ibc, nel 2019 i consumatori di tutto il mondo cercheranno sempre più alternative salutari e naturali e i valori etici influenzeranno le decisioni d' acquisto. I numeri: il 37% del campione vuole prodotti con packaging eco-friendly, il 41% dichiara di evitare il più possibile l' uso di contenitori di plastica, più di due terzi dei consumatori è disponibile a pagare un prezzo più alto per prodotti a km zero; il 42% pagherebbe di più per prodotti ecosostenibili; il 44% è attento all' origine e vuole sapere se il bene è stato prodotto eticamente.
E allora perché, oggi, solo il 9% della produzione è «circolare?» Cosa resta, a conti fatti, degli studi e delle proiezioni economiche? Ci sono le certificazioni e i premi per i prodotti più «virtuosi» come quella Cradle to Cradle , «dalla culla alla culla» per prodotti progettati in alternativa al modello «dalla culla alla tomba», che identifica prodotti ad alto spreco e zero riutilizzo. C' è una direttiva europea, la 2014/95/UE, in Italia recepita a fine 2016, che ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società quotate, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l' obbligo di rendere note le loro politiche di sostenibilità ambientale, sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e dei rischi. Il tutto secondo il principio del Comply or explain : chi non fa nulla deve spiegare il perché. Esistono poi dei programmi come il CE100 della Ellen MacArthur Foundation, che riuniscono le aziende più impegnate sul fronte degli obiettivi ambientali e le promuovono. Ma alla fine una normativa di sistema non c' è, e la maggior parte dei prodotti sono progettati per durare il meno possibile.
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Nel campo delle energie rinnovabili il motore trainante è l' Europa, la nostra Enel è leader nel mondo, e nel mercato sono entrati i pannelli riutilizzabili, ma oggi pesano solo per un quinto della produzione globale di energia. Un esempio su tutti racconta come continua a girare il mondo: l' Arabia Saudita aveva annunciato il più grande impianto di energia solare del pianeta. L' obiettivo del programma da 109 miliardi di dollari era quello di generare - da solare - un terzo del fabbisogno energetico del Paese entro il 2032. Erano sei anni fa, nulla è stato fatto.
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Perché? Quando nel 2016 il barile era sceso a 27 dollari, per il regno saudita la transizione alle rinnovabili sembrava ormai imprescindibile, ma appena il prezzo del petrolio è salito, l' urgenza è svanita. L' unica vera pressione, oggi, arriva dalla consapevolezza degli adolescenti di tutto il mondo, che chiedono di avere un futuro abitabile... mentre i loro padri glielo stanno cucinando a fuoco lento.
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