1 - NON È IL '68 MA LA BATTAGLIA DEGLI INVISIBILI
Stenio Solinas per “il Giornale”
Cinquant' anni dopo il Joli Mai che incarnò il Sessantotto, la Francia si ritrova a fare i conti con una contestazione di novembre dal sapore acre dell' insurrezione non dichiarata, ma praticata. Non c' è la rabbia e insieme la goliardia studentesca, non ci sono le pure e semplici rivendicazioni salariali, ma qualcosa di più profondo e inedito, che non parte dal centro parigino, ma dalle periferie dell'Hexagone, che ha a che fare con una crisi (...) (...) di rappresentanza politica e un malessere socio-identitario trasversale: piccoli commercianti e imprenditori, agricoltori e operai, giovani e anziani, i cosiddetti perdenti della globalizzazione che non ci stanno a essere condannati all' invisibilità sociale. I gilet jaune indossati come simbolo vogliono dire proprio questo: sono fermo sulla strada per un guasto, ma esisto, non mi si può investire impunemente.
È significativo che un loro collettivo abbia chiesto l'apertura degli «Stati generali della fiscalità». Le parole, si sa, hanno un senso e in Francia poi pesano come pietre quando rimandano alla sua storia nazionale. Gli Stati generali del 1789 diedero il via alla Rivoluzione e segnarono la fine dell' Ancien Régime, raccontano l' eguaglianza di fronte allo Stato, la scomparsa dei privilegi.
donald trump ed emmanuel macron
Due secoli dopo, Emmanuel Macron corre il rischio di ritrovarsi nei panni di un Luigi XVI complice e vittima di una corte tecnocratica ignara, come quell' aristocrazia che l'ha preceduta, di quali siano i reali bisogni dei suoi cittadini-sudditi. Conferenza sociale nazionale, dibattito regionale sui problemi della mobilità e del territorio, adozione dello scrutinio proporzionale per le elezioni legislative, aumento dello Smig, il salario minimo garantito, questi alcuni dei temi posti sul tappeto dal collettivo: come si vede, non è una pura e semplice questione di qualche centesimo in più sul prezzo della benzina.
Chi se la prende, deprecandola, con «l' ondata populista» dimostra una miopia politica sconfortante.
Stando ai sondaggi, il 75 per cento dei francesi approva la protesta e a un anno dalla sua elezione il quarantenne presidente della Repubblica ha dilapidato quel consenso iniziale che in fondo non era altro se non un' apertura di credito verso una politica riformista nei confronti dei ceti più deboli che impedisse il salto nel buio di una radicalizzazione troppo violenta. Per tutta risposta, Macron ha soppresso l' imposta sulle grandi fortune, ha aumentato il costo del carburante in nome dell' emergenza ecologica, è entrato in rotta di collisione con il pubblico impiego, il mondo della scuola, quello dei trasporti, ha visto il suo esecutivo sfarinarsi a colpi di dimissioni.
La Francia periferica non è il sud o il mezzogiorno del Paese, non ha cioè a che fare con una regione eternamente in ritardo quanto a sviluppo economico. È periferica rispetto alle metropoli, lì dove il ceto medio-alto globalizzato gira in bicicletta, ma ha il Suv per andare nella casa in campagna, predica l'accoglienza dei migranti, ma non la pratica, delocalizza le fabbriche mentre mangia cibo fusion, si sente cittadino del mondo e però si compiace dei prodotti costosi a chilometro zero, un tempo prodotti normali di una filiera alimentare.
Dietro i gilet jaune, insomma, c'è una maggioranza ferita, ma non rassegnata, la maggioranza di chi ha fatto grande un Paese con il suo lavoro e non ci sta a essere messa da parte, a vedere considerato il proprio stile di vita obsoleto, non più al passo con la modernità, reazionario. Non lo vuole modificare proprio perché è il suo, gli è costato lacrime e sangue, è parte integrante di un sistema di idee e di valori. È popolo contro élite, un' élite però che non conosce più il suo popolo e insieme pensa di poterne fare a meno, confondendo il gusto sano del pane con il profumo-contentino delle brioche. Si sa com' è andata a finire.
2 - I GILET GIALLI SONO IL FRUTTO DI MACRON
Francesco Saraceno per il “Fatto quotidiano”
La rivolta dei Gilet gialli è esplosa a causa degli aumenti del prezzo del carburante, che hanno colpito in particolare le famiglie rurali e gli agricoltori; ma il malessere ha radici più profonde e diffuse, nella società francese. L’economia sente, dopo dieci anni, tutto il peso di una crisi che ha colpito le classi medie e inferiori.
La disoccupazione che ha tardato a ridursi (costando la rielezione a François Hollande); l' austerità che, sia pure meno marcata che nei Paesi della "periferia" della zona euro, ha ridotto perimetro e copertura dei servizi pubblici; e infine, la riduzione delle allocazioni familiari e del welfare che ha colpito le categorie più disagiate. Tutto questo ha condotto a quella che Julia Cagé ha chiamato "la crisi del potere d' acquisto", che ha a lungo covato prima di esplodere in occasione dell' ultima legge di Bilancio.
Emmanuel Macron ha un'enorme responsabilità per l' infiammarsi della crisi. A sua difesa si potrebbe notare che l'aumento del carico fiscale è dovuto soprattutto a Hollande (sotto l'impulso di un ambizioso sottosegretario, e poi ministro dell' Economia, di nome Emmanuel Macron).
Anzi, con la legge di Bilancio per il 2019 il trend è invertito, visto che la riduzione di alcune imposte (in particolare la soppressione dell' Imu per la maggioranza delle famiglie, e la flat tax sui redditi da capitale) ha più che compensato la riduzione delle prestazioni sociali. Perché, allora, il malcontento esplode proprio adesso? La spiegazione sta nell' orientamento di politica economica perseguito fin dall' inizio dal presidente francese.
Come Donald Trump, Macron crede nella teoria dello "sgocciolamento": ridurre il carico fiscale per i ricchi rilancerebbe la crescita, perché questi sarebbero produttivi e investirebbero il maggiore reddito in attività innovative.
I frutti della maggiore crescita poi andrebbero a beneficio di tutti. Macron ha cercato quindi di dare della Francia un' immagine pro-business, riducendo drasticamente le tasse sui più ricchi e rendendo l' imposizione fiscale, per la parte alta della distribuzione, regressiva. L'ultima legge di Bilancio ne è la manifestazione più evidente.
L'Istituto per le Politiche pubbliche ha mostrato che, pur in presenza di una riduzione complessiva del carico fiscale, il 20% più povero e la classe medio-superiore vedono la propria posizione peggiorare, le classi medie hanno un modesto miglioramento, mentre la maggior parte dei benefici vanno all' 1 per cento più ricco (con i ricchissimi che vedono il loro potere d' acquisto aumentare del 20 per cento).
Il problema è che, anni di ricerche lo provano, la teoria dello sgocciolamento non funziona: favorire i più ricchi non porta più crescita. I manifestanti in questi giorni ce lo ricordano. La necessità di mettere la fiscalità al servizio della transizione ecologica avrebbe probabilmente ricevuto ben altra accoglienza in una società come quella francese, in cui la sensibilità ecologista è radicata, se non fosse stata accompagnata dal sentimento di crescente ingiustizia sociale.
La stampa ha dato del movimento una visione distorta: un gruppo di ricercatori di Tolosa ha mostrato, tramite l' analisi lessicografica di migliaia di documenti, come si sia affermata una narrazione che privilegia la ribellione fiscale, la rivolta contro le tasse, in contraddizione con la richiesta di servizi pubblici migliori. Secondo i ricercatori, invece, dai social legati al movimento emerge una prevalenza di temi legati all' ingiustizia sociale, alla rabbia verso le élite che si arricchiscono e lasciano il conto da pagare agli altri; una richiesta di società più coesa e solidale.
Il movimento ha ottenuto una parziale vittoria, con il congelamento della tassa sul diesel. Ma è improbabile che si assista a un cambiamento radicale di politica economica. La domanda di giustizia sociale che emerge dal movimento dei Gilet gialli, quindi, rimarrà inevasa, lasciando intatta la tensione che percorre la società francese (e non solo). Occorrerebbe, per rispondere a queste esigenze, una proposta politica che mettesse al centro la redistribuzione delle risorse in un mondo globalizzato e ritrovare quello Stato regolatore che negli anni d' oro della socialdemocrazia (e della destra sociale) garantiva stabilità e poneva le basi per l' investimento, l'innovazione e la crescita.
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Quel ruolo è più difficile da definire in un mondo globalizzato in cui i singoli Stati hanno margini di manovra ristretti, e in cui quindi la cooperazione internazionale, per quanto difficile, è ormai l' unica via percorribile. Ma non si può evitare questa sfida, se non si vuole che movimenti come quello dei Gilet gialli finiscano preda del qualunquismo o di tentazioni sovraniste.
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