Antonello Guerrera per “la Repubblica”
C’è il pianoforte nero che suonava ogni giorno: «Glielo regalò il padre dall’Inghilterra due mesi prima di morire». L’edizione Adelphi di “Allucinazioni”, “El hombre que confundió a su mujer con un sombrero” e tutti i suoi libri pubblicati all’estero. La locandina del film tratto da “Risvegli”, appoggiata a terra. Cechov, Faulkner, Auden, che aveva conosciuto in gioventù, una biblioteca sterminata di letteratura e saggistica.
La moquette beige, come l’amorfa porta del suo appartamento. Il letto con la coperta azzurra, come lo ha lasciato. E poi l’adorato dizionario di inglese Oxford «che leggeva ogni sera a letto con me prima di addormentarsi». La foto seppia di Muriel Elsie Landau, madre amatissima e uno dei primi chirurghi della storia britannica.
Gli scatti di lui nel suo studio, prima di un tuffo nel lago e quello con la t-shirt rossa di Musicofilia. «Questa foto con i lemuri invece è stata scattata durante il nostro ultimo viaggio insieme, nella riserva di Durham, in North Carolina. Era il luglio 2015, un mese prima che se ne andasse. Oliver studiava molto l’evoluzione, dunque i lemuri gli piacevano molto».
Il 30 agosto 2015, a 82 anni, Oliver Sacks è morto in questo appartamento di New York, nell’alternativo quartiere di Chelsea, a pochi passi dal Whitney Museum di Renzo Piano. Ma qui, in queste stanze semplici del secolo breve, c’è ancora una brezza di vita meravigliosa, di tenue immortalità.
Il nostro Virgilio è Bill Hayes, unico vero amore di Sacks. Scrittore e fotografo americano di 56 anni che per la prima volta parla a un giornale dopo l’addio del compagno e che domani pubblica per l’editore americano Bloomsbury il meraviglioso Insomniac City. Il libro, che è nato l’anno scorso dopo un breve soggiorno a Roma, è un diario della vita di Hayes a New York, dove si è trasferito nel 2009, ma soprattutto della sua relazione con Oliver Sacks. Fino agli ultimi, drammatici istanti della sua vita.
Accanto alla foto di mamma Sacks e a una boccetta di diluente nitro, ci sono pietre bizzarre e un pacchetto bianco, con un nastro dorato: «Stibnite. Buon 51esimo compleanno, Bill. Con affetto, da Oliver». «Ah», spiega Bill con un sorriso d’incanto, «Oliver mi faceva i regali in base alla tavola periodica degli elementi. A seconda degli anni che compivo, mi regalava l’elemento del numero corrispondente. Questa barretta grigia è indio, per i miei 49 anni. Quest’altro è tellurio per i 52, e così via. Oliver era certamente un tipo bizzarro, ma nel senso buono del termine. Intelligente, divertente, dolcissimo, aveva una curiosità adolescenziale. Era molto timido ma, se ispirato, esuberante. Mi manca la sua voce. Mi manca la sua compagnia », confessa con la voce lucida di lacrime.
Sacks e Hayes si sono conosciuti nel 2009, nella primavera di New York, davanti a un caffè. L’amore è sbocciato pochi mesi dopo, a dicembre, mentre Oliver salutava Bill in partenza verso Washington dove la sua famiglia lo attendeva per Natale: «Fu lui a cercarmi a inizio di quell’anno: gli era piaciuto molto il mio libro The Anatomist e mi aveva scritto», spiega Hayes. «Così abbiamo cominciato una corrispondenza. Di carta, ovviamente, perché Oliver sino all’ultimo non ha mai avuto un computer, mai uno smartphone. Solo un cellulare minimale per le emergenze. Era di un altro tempo. Come il nostro amore».
Non a caso, Insomniac City, che allude a New York ma anche alle notti insonni dei due, è una collazione di appunti e scritti di Hayes sulla loro passione. «Una delle prime cose che mi disse Oliver fu: “Devi tenere un diario”. Scriveva qualsiasi cosa su carta, in ogni momento, era maniacale. Per lui era cruciale “pensare su carta”, per memorizzare e selezionare le cose più importanti».
Ma, come Eros e Thanatos, l’amore, per Oliver e Bill, è spesso intrecciato alla morte. Molti anni prima, quando viveva ancora a San Francisco, ad Hayes è morto improvvisamente, nel letto, il suo primo fidanzato, Steve. «Almeno con Oliver ho avuto il tempo di dirgli addio e di prendermi cura di lui», racconta Hayes commosso, «la malattia di Oliver ci ha costretto a fare cose normali con una nuova consapevolezza. Nuotare insieme diventò paradossalmente un piacere ancora più denso.
La mia vita è cambiata molto adesso, senza di lui ho ancora un vuoto sterminato dentro, vuoto come questo appartamento». Sacks, invece, come scrive nell’autobiografia del 2015 In Movimento (Adelphi, come tutti i suoi libri) in cui ha dichiarato per la prima volta di essere omosessuale, l’amore lo ha incontrato solo nel gennaio 2015, poco prima di scoprire il cancro al fegato e dopo poche e tristi avventure sessuali e 35 anni di astinenza.
«Per questo con me Oliver è stato straordinariamente romantico», ricorda Hayes, «voleva recuperare tutto l’amore perduto, viverlo in maniera sincera e senza paure. Quando infatti seppe la fatale diagnosi, si affrettò a far pubblicare l’autobiografia con il “coming out” e, senza mai perdere la calma e la razionalità, stilò subito una lista di otto cose da fare. Tra queste: “libro pubblicato”, “divertimenti possibili”, “ancora del bel lavoro”, “Billy” e una “morte (relativamente) facile”».
Perché Sacks, rivela Hayes, di fronte all’inevitabile fine, ha scelto di non prolungare la sua sofferenza. «Niente chemio, solo un farmaco sperimentale e l’immunoterapia, ma non hanno fatto effetto. Voleva godersi i suoi ultimi giorni senza soffrire troppo per continuare a lavorare, leggere, nuotare, amare. “Ho più paura di perdere tempo, non di morire”, diceva. Era abituato al dolore e alla malattia dei suoi pazienti. E il tumore all’occhio destro nel 2010 lo aveva già messo alla prova. Non è ricorso alla religione: è rimasto ateo, ma sempre con etica e morale granitiche. Aveva accettato il suo destino».
Sacks e Hayes non vivevano insieme però. Bill ha un appartamento nello stesso palazzo, ma tre piani sopra la casa sfitta di Oliver. Ogni sera dell’ultimo anno insieme la trascorrevano però da Sacks: «A cucinare, ascoltare musica, suonare il piano, leggere, parlare. Niente tv o computer, uscivamo solo per qualche concerto o mostre».
Ma in Insomniac City e nella vita non litigavate mai? «Certo che sì», sorride, «ma per cose futili, tipo il frigo vuoto. Ma la cosa che faceva più innervosire Oliver era il traffico e il ritardo. Aveva un’ossessione per la puntualità. Non potendo più guidare dopo il problema all’occhio, lo agitava. A volte cominciavamo a urlare mentre Oliver mandava a quel paese un altro automobilista fuori».
Il salotto di casa Sacks affaccia sulla 8th Avenue. La stessa strada dove, poche settimane prima di morire, sfilò una manifestazione di Black Lives Matters dopo l’ennesima uccisione di un ragazzo nero da parte della polizia. «Oliver diceva sempre di non avere tempo per la politica», precisa Hayes, «ha sempre voluto essere un osservatore esterno, come con i suoi pazienti. Non ha mai votato e non è mai diventato un cittadino americano. Ma quella volta, con quei giovani che protestavano, mi stupì. Disse: “Vorrei essere con loro. Andiamo”».
Chissà se oggi farebbe la stessa cosa contro Trump. «Assolutamente sì. Sa una cosa? Cinque o sei anni fa venne qui una rivista a intervistarlo. Tra le domande che il giornalista gli faceva, una era: “Qual è la cosa più brutta di New York?”. E lui: “Donald Trump”. Perché secondo Oliver nessuno aveva deturpato New York come lui con le torri d’oro, costruzioni orribili, un’avidità smisurata. Fosse ancora vivo, Oliver sarebbe in strada a protestare. Ma, almeno, sono felice che non abbia visto questa agghiacciante era politica. Alla prossima manifestazione protesterò anche per lui».