L'ULTIMA DIFESA DI BOSSETTI - L'ARRINGA CONCLUSIVA DEI SUOI AVVOCATI: ''NESSUNO LO HA VISTO UCCIDERE YARA. NESSUNO HA VISTO LEI FUORI DAL CENTRO SPORTIVO, NÉ L'IMPUTATO, NÉ IL SUO FURGONE. E ANCHE IL DNA NON È UNA PROVA: PUÒ ESSERE STATO CONTAMINATO, L'ESAME NON ERA REPLICABILE. E LA GIUSTIZIA NON È UN ATTO DI FEDE''
Claudia Osmetti per ''Libero Quotidiano''
«Nessuno lo ha visto uccidere Yara». La difesa di Massimo Bossetti, unico accusato per l' omicidio di Yara Gambirasio a Brembate di Sopra (Bergamo) nel novembre di sei anni fa, sceglie la linea frontale e non usa giri di parole: «Nessuno ha visto la minore fuori dal centro sportivo, nessuno ha visto l' imputato, nessuno ha visto il mezzo dell' imputato». Così, ieri, l' avvocato Paolo Camporini, si è espresso durante l' arringa conclusiva del processo di primo grado a carico di Bossetti: «Dove si è cercato qualcosa contro di lui, non si è trovato niente».
Ne è convinto il legale, ne è convinto anche il suo collega, Claudio Salvagni, che lo ha coadiuvato durante tutto il procedimento penale e che ieri - ovvio - era presente in aula. «Le evidenze oggettive non possono che portare all' assoluzione» hanno scandito pressoché all' unisono: «Gli indizi non vanno contati, ma valutati uno per uno. Servono prove gravi, precise e concordanti».
camporini salvagni difesa bossetti
Come il Dna trovato sugli indumenti della povera tredicenne, verrebbe da dire, e identificato come appartenente allo stesso Bossetti da perizie per la verità molto contestate dalla difesa, poiché anche quello «non è preciso, può essere stato contaminato: la Cassazione ha stabilito che è una prova solo quando è perfetto, senza dubbi né anomalie». E, sostengono gli avvocati, non è questo il caso.
letizia ruggeri pubblico ministero del processo yara bossetti
Ancora: «Siamo davanti a un puzzle in cui alcune tessere non entrano nel posto giusto, ma vengono incastrate a piacimento. Tutto si basa su un Dna sul quale la difesa non ha potuto interloquire.
il furgone di bossetti analizzato dai ris
Un atto di fede così non lo facciamo: il lavoro del medico legale, Cristina Cattaneo, non porta a conclusioni certe». Di più, la difesa non ne ha risparmiata una: «Bossetti fin dall' inizio ha scelto la strada della sincerità: avrebbe potuto dire che conosceva Yara, e che quindi il suo dna poteva derivare da un normale contatto. Invece è un testone, bergamasco: non l' ha mai vista né conosciuta. E così ha conffermato».
I legali hanno poi rilevato - come anticipato ieri da Libero - come il kit utilizzato sul corpo della 13enne lombarda per raccogliere le tracce genetiche fosse «scaduto» e che, quindi, il risultato dell' analisi «è da cestinare». Dei reperti, sempre secondo la difesa, meglio non parlare: anche la «catena di custodia» ha subito alterazioni. Insomma, se sul corpo di Yara «sono stati trovati dieci profili genetici diversi», qualche dubbio in sede processuale viene. Specie agli avvocati di Bossetti.
Appunto: dagli accertamenti e dai test condotti durante l' indagine - dal fatto, tanto per dire, che nessuna traccia di Yara, nessuna goccia di sangue, sia stata trovata sul furgoncino Iveco Daily del carpentiere di Mapello - si potrebbe scrivere «un' altra storia» rispetto a quello raccontata dall' accusa, e da molti media, in questi mesi.
«Quella ragazza è stata aggredita altrove, non nel campo di Chignolo, e poi portata in un altro posto in cui il corpo è stato avvolto. C' è un altro luogo, e c' è l' ipotesi della presenza di più persone». Insomma, non sarebbe stata uccisa dove poi è stato trovato il corpo.
Senza contare che «in un processo normale l' indiziato numero uno sarebbe un altro», ossia quell' uomo che, ha ricordato Camporini, quel pomeriggio del 26 novembre del 2010, quando Yara scomparve dopo essere stata in palestra per non rientrare mai più a casa, ha molestato una fisioterapista proprio nel centro sportivo: «Ci è stato detto che sono state fatte delle indagini, ma non possiamo accontentarci».
I legali, in aula e davanti alla Corte, hanno anche provato a smontare l' accusa di calunnia, che pure pende sul capo del loro assistito per aver indirizzato polizia e autorità su un' altra persona, Massimo Maggioni: «In quelle ore Bossetti era in stato confusionale, non aveva la capacità di intendere e di volere, per via dello stress emotivo seguito all' arresto e alla campagna denigratoria che stava distruggendo lui e i suoi affetti. Si stava difendendo e ha accusato il collega senza volerlo».
Tant' è: ora la palla passa ai giudici, che dovranno arrivare a verdetto nei primi giorni di luglio. I pm hanno già chiesto l' ergastolo per Bossetti. La verità (processuale) arriverà solo tra un mese. Ma di dubbi, in questo processo, ne restano tanti.