Jaime D’Alessandro per “la Repubblica”
La sala all' entrata, con il negozio di souvenir, è la preferita per le foto ricordo. Jet Propulsion Laboratory è scritto il lettere d' argento sulla parete curva di fondo. Si posa con espressione sorridente e il badge ben in evidenza sotto lo sguardo distratto della centralista che a quella scena assiste decine di volte al giorno. Se non fosse per la moquette grigia da ufficio pubblico, che ha visto tempi migliori, si potrebbe pensare di essere in qualche parco a tema.
In realtà su questi 72 ettari sorge un laboratorio della Nasa che ha scritto molta delle storia delle esplorazioni spaziali e ridisegnato il volto di tanti pianeti. Dai Voyager ai quattro rover marziani, fino a Cassini: la prima sonda ad aver orbitato attorno a Saturno che il 15 settembre, dopo 13 anni di osservazioni del pianeta, si disintegrerà cadendo nella sua atmosfera e inviando gli ultimi preziosissimi dati. «Daremo una festa indimenticabile», promettono qui.
I seimila dipendenti condividono la stessa passione, anche a generazioni di distanza. Soprattutto vivono in un tempo diverso rispetto al nostro. «Servono anni per progettare le missioni che poi dureranno decenni», racconta Morgan Cable, scienziata di 34 anni innamorata del Jpl dal 2004, quando entrò come studentessa per un corso estivo. «Conosco colleghi che hanno lavorato a Cassini per tutta la vita. C' è chi ha chiamato i figli come le lune di Saturno».
In una dimensione così altra rispetto alla vita sulla Terra, quando Morgan è arrivata al Jpl Cassini aveva appena raggiunto Saturno e né l' iPhone né Facebook erano ancora nati, le emozioni sono rade e di intensità fuori scala. «Mi ricordo quando abbiamo osservato le stagioni di Titano, una delle lune di Saturno», spiega con gli occhi che le luccicano mentre sediamo sotto un modello di sonda Galileo a grandezza naturale lunga sette metri.
«Considerando la distanza dal Sole, le stagioni durano sette anni. Abbiamo dovuto aspettare un po'. Ma la cosa che mi ha emozionato di più è aver avuto la prova che su alcune lune, come Encelado, la stessa Titano o Europa che orbita attorno a Giove, c' è abbondanza di acqua. Significa che potrebbero ospitare la vita, anche se sembrava impossibile a una distanza tale dal Sole. La nostra stessa idea di pianeta è cambiata».
I palazzi del Jet Propulsion Laboratory affacciano su un grande parco. All' ombra degli alberi, fra baracchini che vendono hot dog e caffè, incontriamo un altro volto di questo luogo. Mike Janssen, 80 anni, è stato assunto nel 1974 e da allora è rimasto al Jpl. Figlio di un annunciatore radiofonico dell' Idaho, il suo primo telescopio lo ha costruito a 13 anni. È cresciuto sognando di fare quel che fa oggi. Come Morgan Cable.
«Questa differenza fra il tempo delle nostre vite e quello delle missioni è un aspetto del quale si parla poco». Lui ha visto partire i Voyager e costruito il radiometro a microonde montato su Juno che sta scandagliando Giove. È la sua ultima missione, quando terminerà, nel 2018, andrà in pensione. «Il problema è che sai di usare tecnologie che quando inizieranno a raccogliere dati saranno vecchie di anni. Giochi con il tempo, tentando di costruire apparecchi solidi, andando all' essenziale».
Janssen di successi e fallimenti ne ha visti tanti. Si commuove ricordando il lancio del 1989 del Cosmic Background Explorer (Cobe) grazie al quale più tardi George Smoot e John Mather avrebbero vinto il Nobel per la fisica nel 2006. «È l' unico lancio al quale ho assistito di persona. Per anni avevamo studiato tutte i possibili problemi che avrebbe potuto incontrare nelle spazio. Ma il razzo scomparve nel vapore del lancio: sembrava esploso. I peggiori dieci secondi della mia vita. Poi riemerse. Ma ancora oggi mi fa male ripensarci». Ogni missione lascia un' eredità, dicono qui al Jpl. Un bagaglio di tecnologie e scoperte che poi serviranno in futuro ad altri scienziati e ad altre missioni. Ma in quel bagaglio la parte umana, stranamente, non viene mai registrata.