Enrico Bellavia per "La Repubblica"
Il re di Roma è pazzo, o almeno si fa passare per tale. Se tra indulti e sconti, Massimo Carminati, uno dei quattro monarchi di Mafia Capitale, ha potuto rimanere in libertà non è da meno Michele Senese, il camorrista della Nuova famiglia sbarcato a Roma negli anni Ottanta e qui rimasto a dettare legge in solida alleanza con Carminati, Giuseppe Fasciani e Giuseppe Casamonica. La sua storia è un monumento all’impunità costruito su montagne di perizie di comodo.
«La follia, potente strumento per delegittimare avversari e collaboratori di giustizia, in questo caso viene utilizzato come mezzo per farla franca», spiega Corrado De Rosa, psichiatra che al tema della strumentalizzazione della pazzia ha dedicato due libri ( I medici della camorra e La mente nera).
Senese è stato arrestato l’ultima volta il 27 giugno del 2013. Era tornato libero per decorrenza dei termini da sei mesi. L’ordinanza è quella per l’omicidio, avvenuto nel 2001 sul litorale di Roma, del boss della Marranella, Giuseppe Carlino. Ovvero, la vendetta — a quattro anni di distanza — per l’assassinio di Gennaro Senese, il fratello di Michele.
Ma la sua storia parte da lontano e incrocia quella degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. E il tramonto di Senese coincide con la fine dei «manicomi giudiziari», la cui chiusura decisa per lo scorso anno, è stata spostata a marzo 2015. «Al loro posto sorgeranno nuove strutture residenziali — dice De Rosa — Una riforma giusta sulla carta, che può però scatenare il caos per la mancanza di regole condivise e perché i mafiosi sanno approfittare delle novità: il boom del sistema delle perizie false c’è stato alla fine degli anni Settanta, quando la psichiatria ufficiale correva verso la riforma Basaglia; con l’entrata in vigore della legge Gozzini i boss hanno abbandonato gli Opg per colonizzare cliniche e ospedali».
Ribelle fin da piccolo, la scuola abbandonata al tempo delle elementari, un ricovero in sanatorio a 8 anni e un altro a 16 con un proiettile nello stomaco, Senese abbraccia la follia a 22 anni. Una delle prime perizie, nel 1979, gliela firma Giuseppe Lavitola, papà di Valter, l’intraprendente ex direttore dell’ Avanti con un destino da faccendiere: gli diagnostica epilessia e schizofrenia. Ma con la materia i camorristi hanno una certa “confidenza”. Il capo del clan avversario, Raffaele Cutolo, alla guida della Nco si fa diagnosticare gli stessi disturbi, sempre da Lavitola.
Il 5 febbraio 1978 Senese evade dall’Opg di Aversa facendo saltare in aria il muro di cinta: sono gli anni in cui Aldo Semerari, luminare della psichiatria, è al servizio di neri e camorristi. Capi e gregari della Banda della Magliana e boss di prima grandezza diventano malati e finti malati. Senese ottiene molto di più. «La sua diagnosi preferita è: schizofrenia paranoide in disturbo di personalità antisociale e ritardo mentale», aggiunge De Rosa. «In sintesi: sarebbe preda di deliri e allucinazioni, patologicamente cattivo, incapace di stare alle regole e non in grado di capire quello che succede intorno a lui».
RAFFAELE CUTOLO NEGLI ANNI OTTANTA
Ritratto incompatibile con il profilo di un camorrista che si è gettato a capofitto nel business del gioco d’azzardo e della droga. In carcere squaderna un repertorio di bizzarrie. Accusa le guardie di spiarlo o di volerlo avvelenare. Nel 1997, durante un colloquio a Rebibbia dice: «Quando esco me ne vorrei andare in Germania. Il tedesco certo non l’ho studiato, però una volta mi sono svegliato la mattina e parlavo tedesco …».
Furbissimo e ricco, quando non mente corrompe. Visita praticamente tutti gli Opg e negli anni Novanta strappa allo Stato perfino una dichiarazione di invalidità. Tra i suoi consulenti ha il meglio: da Lavitola ad Adolfo Ferraro, già direttore di Aversa, fino al docente universitario Maurizio Marasco.
«Naturalmente c’è anche chi non gli crede — ricorda De Rosa — Nel 1999 Giuseppe Sciaudone, perito del tribunale della Libertà di Napoli, scrive che non è chiaro perché si debba spostare Senese dalla Campania a Roma, se non per favorire i suoi familiari che vivono a Roma. E che dunque avrebbero potuto fargli visita senza stancarsi».
Dal 2000 al 2003, Senese è all’Opg di Montelupo Fiorentino: non una crisi, né una terapia specifica e dopo tre anni decide di sparire. Nel 2011 sulla sua strada incontra Roberto Malano, incaricato dalla procura di Roma di valutarne le condizioni. Malano esclude che soffra di insufficienza mentale e si domanda come mai sia improvvisamente guarito.
Ma misteri simili costellano le vite carcerarie di tanti altri abilissimi nell’escogitare trucchi per far comparire dal diabete all’Aids fino al tumore: semi di ricino negli occhi, fiale endovena di camomilla, inoculazione di mercurio. Michele Aiello, 15 anni e sei mesi per mafia, tycoon sanitario alle dipendenze di Provenzano, per anni ha scampato la cella con una diagnosi di favismo. Il boss di San Luca, Antonio Pelle è evaso dall’ospedale di Locri dopo essersi procurato una diagnosi di anoressia ed è tuttora latitante. Giulio Lampada, ’ndranghetista lombardo in rapporto con giudici e massoni ha la fobia della cella ma anche degli ospedali.
Dunque va a Savona, in una comunità senza sbarre né corsie. Luogo ideale per «far venire meno gli aspetti persecutori del carcere». E Nino Santapaola, fratello di Nitto, il boss di Catania, ricoverato all’Opg di Reggio Emilia in regime di 41 bis ha un intero padiglione riservato a lui e a un detenuto che non ha contatti con la criminalità organizzata ma che ha il compito di garantirgli la socialità. Con il paradosso che anche il suo compagno sconta il carcere duro.
«In media in carcere un detenuto su tre soffre di disturbi psichici, ma non si sa quanti siano davvero i finti matti — spiega De Rosa — Franco Roberti e la Dna si sono occupati della questione anni fa, ma mappare i casi è difficilissimo. Riprendere quel lavoro può essere un’occasione per discutere di protocolli e uniformare i giudizi dei periti. Anche perché nessuna norma vieta che un medico sia consulente di un boss in un processo e poi di un giudice in un altro in cui è coinvolto un sodale di quel boss».
Per molti pazzi che la fanno franca c’è poi un demente conclamato che invece rimane al 41 bis. È Bernardo Provenzano: ridotto a un vegetale con un sondino che lo tiene in vita, non capisce e non reagisce. «I suoi processi sono sospesi, la sua posizione nel processo sulla trattativa Stato-mafia è stralciata — dice De Rosa — Ha un amministratore di sostegno.
Rimane al 41bis in ospedale e almeno per lui, simbolo della mafia ridotta in catene, non ci sono scappatoie. La sua storia, però, è un paradosso perché rischia di diventare un potente slogan per i detrattori del 41bis: una dura necessità in uno Stato devastato dalla mafia come il nostro, che si fonda sulla pericolosità attuale del detenuto e che non può diventare uno strumento simbolico o, peggio, di vendetta».