1- "MI VUOLE MORTO. GHEDDAFI ME L'HA GIURATA. L'HO SAPUTO DA MIE FONTI CERTE" 2- UN CAZZO IN PIÙ PER IL CAVALIERE POMPETTA, CHE GIÀ SI SENTIVA BRACCATO POLITICAMENTE, GIUDIZIARIAMENTE E FINANZIARIAMENTE, E ORA SOSTIENE DI ESSERE MINACCIATO FISICAMENTE: "SONO IN PERICOLO DI VITA, E PURTROPPO NON SOLO IO MA ANCHE I MIEI FIGLI. GHEDDAFI HA DATO DISPOSIZIONE DI FARMI FUORI. "LO DOVETE AMMAZZARE" 3- "ORA GHEDDAFI RISCHIA DI RIMANERE. E QUELLO CHE IN QUELL'AREA ERA IL NOSTRO MIGLIORE AMICO È DIVENTATO IL NOSTRO PEGGIOR NEMICO. UN DANNO PER L'ITALIA..."

Francesco Verderami per il Corriere della Sera

«Mi vuole morto». E stavolta non è una metafora, stavolta non c'entrano la politica, la giustizia o la finanza, stavolta Berlusconi si riferisce proprio alla morte fisica, «perché così Gheddafi ha deciso. Lui me l'ha giurata».

Da quando l'Italia si è schierata nel conflitto libico, il Cavaliere ha sempre convissuto con questa paura latente, che si rinnovava a ogni informativa dei servizi: d'altronde la lista dei possibili obiettivi terroristici comprende altri capi di Stato e di governo che fanno parte della coalizione internazionale.

Dev'essere però successo qualcosa se Berlusconi in questi giorni si è mostrato più nervoso del solito, se - affrontando l'argomento - ha sostenuto di sentirsi davvero «nel mirino» del Colonnello e di temere non solo per sé ma «anche per la mia famiglia». Per interpretare lo stato d'animo del premier bisognerebbe decrittare un inciso del suo ragionamento - «l'ho saputo da mie fonti certe» - che lascia intuire come stavolta la notizia non gli sia arrivata attraverso i canali ufficiali dell'intelligence: «Sono in pericolo di vita, e purtroppo non solo io ma anche i miei figli. L'ho saputo da mie fonti certe che Gheddafi ha dato disposizione di farmi fuori. "Lo dovete ammazzare", così ha detto».

Non è dato sapere quali siano queste «fonti certe», è certo che Berlusconi è parso scosso, e la confidenza è stata quasi liberatoria, se è vero che il suo ragionamento era partito dall'analisi della situazione politica interna, dai motivi della crisi di consensi del Pdl. «Tra questi motivi c'è anche la guerra in Libia», secondo il Cavaliere, che a sostegno della tesi può vantare i dati riservati degli amatissimi sondaggi. L'inquietudine però non era legata stavolta alle vicissitudini di partito, quanto alle informazioni che gli erano giunte, non si sa per quale via, da Tripoli: «L'ho saputo da mie fonti certe. Quello mi vuole morto».

Ed è per certi versi singolare l'atteggiamento di Berlusconi, che - parlando del caso - al timore per la propria incolumità unisce il cruccio per aver visto saltare le relazioni con la Libia, che definisce ancora «il mio capolavoro diplomatico»: «A Tripoli c'erano manifesti giganti che mi ritraevano con Gheddafi mentre ci stringevamo la mano. E lui ha preso il nostro intervento militare come un tradimento».

Che fosse contrario al conflitto è noto, «a suo tempo - ha ricordato - avevo messo in guardia i nostri partner internazionali, e anche in patria avevo spiegato che l'operazione non sarebbe stata facile, e che ci avrebbe potuto danneggiare».

Fin dalle prime fasi della missione aveva manifestato il proprio scetticismo: «Non penso che la guerra sarà breve e temo anche che sarà difficile interporre una mediazione con Gheddafi. Dopo essere stato il leader di una rivoluzione, non credo sarà disposto ad andare in esilio. Perciò non vedo una soluzione. E a dir la verità nessuno sa come andrà a finire».

Prima di schierarsi a fianco della Nato, il suo atteggiamento dilatorio gli aveva attirato critiche in Italia e all'estero: «Poi, davanti alle pressioni degli Stati Uniti, alla presa di posizione di Napolitano e al voto del nostro Parlamento, che potevo fare? Non sono solo io a decidere. Ma vai a spiegarlo a chi è abituato a comandare, come Gheddafi. Le regole della democrazia non le capisce».

Il generale Younes, capo dei ribelli libici, non era stato ancora ucciso quando Berlusconi ha rivelato le proprie paure personali e ribadito riservatamente le proprie critiche sulla missione. E non c'è dubbio che l'Italia continuerà ad aiutare gli insorti, «nulla può farci recedere dal nostro impegno», ripeteva ieri il ministro degli Esteri, Frattini: «Certo, la morte di Younes dimostra che la situazione non è semplice, che Gheddafi ha ancora delle energie. Ma la pressione militare, unita alle iniziative diplomatiche, continuerà. La strada è ormai tracciata, e prima o poi il regime crollerà dall'interno».

Sarà, ma il Cavaliere si interroga sulla piega che hanno preso gli eventi in quell'angolo di Mediterraneo, e si chiede cosa ne sia oggi della «primavera» che dal Cairo si era propagata in Africa e in Medio Oriente: in Egitto le donne manifestano perché i loro diritti sono spariti dalla nuova Costituzione; in Tunisia è stato prorogato «a tempo indeterminato» lo stato d'emergenza; in Siria la repressione non si ferma davanti ai documenti di condanna della comunità internazionale. E in Libia, quattro mesi dopo l'inizio degli attacchi aerei, non solo gli insorti non riescono a controllare il territorio, ma il Raìs - che doveva essere processato all'Aja per crimini di guerra - si permette di rifiutare l'exit strategy propostagli dalla Gran Bretagna.

«Ora Gheddafi rischia di rimanere», ha commentato Berlusconi: «E quello che in quell'area era il nostro migliore amico è diventato il nostro peggior nemico. Un danno per l'Italia». Una preoccupazione in più per il Cavaliere, che già si sentiva braccato politicamente, giudiziariamente e finanziariamente, e ora sostiene di essere minacciato fisicamente: «Quello mi vuole morto. L'ho saputo da mie fonti certe».

 

 

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