Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”
Raffaele Guariniello, il magistrato di Torino che ha aperto trentamila inchieste, va in pensione. Dall' indagine sul doping nel calcio all' abbraccio con Maradona, fino al processo sui casi Thyssen e Eternit. I ricordi di quasi 50 anni di carriera. «Da dove cominciamo?» Le segretarie sono andate via. Nell' ufficio pieno di fascicoli, cd di musica lirica e libri di poesia, risuona la Turandot. Quasi mezzo secolo.
A farsi compiangere dai colleghi che si occupavano di «cose più serie», mentre lui passava il tempo a seguire chimere che si chiamavano salute pubblica, tutela dell' ambiente, dignità del lavoro. «Anche quest' ultima settimana ho ricevuto lettere da tutta Italia. Un prodotto tossico, un bambino che è stato male dopo avere ingerito una merendina. Ho sempre sentito il dovere di dare una mano. Le condanne non mi sono mai interessate, mi bastava risolvere il problema.
Sono venuti a trovarmi molti avvocati: procuratore, abbiamo capito che a lei piace processare i reati e non gli imputati. È sempre stato così». Da oggi i verbi vanno coniugati al passato. Raffaele Guariniello, il pretore globale, il magistrato che ha aperto trentamila inchieste ma odiava l' idea di togliere la libertà a un altro essere umano, è in pensione. «Incontro molta gente che mi invita a godermi il riposo. E io penso che allora non mi hanno capito...».
La prima vera inchiesta?
«Facile. 1971, le schedature Fiat sui dipendenti e le loro tendenze politiche. Era un' altra Italia, e va detto anche un' altra Fiat. Quella vicenda risale ai tempi di Vittorio Valletta, dal dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta. Quando sento dire che prima si stava meglio, mi arrabbio. Non è vero. Sui diritti abbiamo fatto passi da gigante».
Cosa combinò quella volta?
«Approfittando delle mie ferie estive, il primo agosto feci una perquisizione a sorpresa, dimenticandomi di avvisare i miei superiori...».
Conseguenze?
«Trovammo lo schedario. E il procuratore capo di allora non la prese bene. Mi disse che ogni magistrato ha una specie di sacca nella quale si vanno a mettere le pietre bianche e quelle nere.
Quando arriverà il momento, aggiunse, si conteranno quante sono le pietre di ciascun colore.
Non era proprio un incoraggiamento a proseguire con certe iniziative. In quel momento decisi che avrei continuato a occuparmi di questi temi».
Le caraffe filtranti, la farina di castagna... qualche suo collega la accusò di voler processare il gomito della lavandaia.
«Forse mi sono occupato anche di quello. Non si è mai trattato delle mie fantasie, quanto delle risultanze di studi scientifici di valore internazionale. E delle critiche non me ne curavo. A me bastava che l' azienda in questione si mettesse in regola».
A proposito di critiche: l' inchiesta sul doping nel calcio?
«Anni durissimi. Minacce di morte, insulti. Ogni lunedì, mentre andava in onda un noto processo televisivo, mi chiamava mia madre. "Mi sembra che ce l' abbiano con te" diceva. Io la rassicuravo, spiegandole che si trattava di un momento destinato a finire presto. Mi sbagliavo. Durò almeno quattro anni».
Non le era chiaro che il mondo del calcio è particolare?
«Me ne resi conto con l' audizione di Diego Armando Maradona. Mancava dall' Italia da qualche tempo, per via dei suoi problemi con il fisco. Alla fine della nostra chiacchierata aprì la porta dell' ufficio e fece entrare sua moglie. Volle a tutti i costi che le dessi un bacio sulla guancia. Poi mi abbracciò, tenendomi stretto a sé. Ero in imbarazzo. Quando si sciolse da me, Maradona scattò verso la finestra, che avevamo tenuto chiusa per attutire il rumoreggiare della folla radunata sotto la piazza della vecchia procura di Torino.
MARADONA MARADONA AUSTRALIA ARGENTINA RUGBY
Aprì le imposte e si affacciò benedicendo la gente, come un Papa del pallone. Una scena incredibile. "Ti amo, Italia" si mise a urlare, e ogni volta che lo faceva si girava verso di me per avere la mia approvazione. Io non sapevo dove guardare».
Altri ricordi di quel tempo?
«Quando ci chiese di essere ascoltato, nell' estate del 1998, Nello Saltutti era già malato.
Aveva giocato nella Fiorentina degli anni Settanta, che aveva un tasso di mortalità e di malattie inusuale. Era povero, non aveva neppure i soldi per curarsi. Ricordo che ci chiese i soldi per il biglietto di ritorno del treno. Morì d' infarto nel 2003».
La più grande delusione?
«Il recente annullamento per prescrizione delle condanne per Eternit. Data la recente giurisprudenza della Cassazione, non me l' aspettavo».
Non poteva procedere per omicidio, invece che per disastro ambientale?
«Avrebbe significato procedere su ogni singolo caso, perizie ed esami per ogni fascicolo.
È quello che stiamo facendo con Eternit bis. Sono convinto che quel processo si farà. Non esserci è il mio più grande rimpianto. Sento un dovere, verso le vittime e anche verso me stesso».
Le soddisfazioni?
«Con il processo Stamina ho visto trionfare la scienza. Anche il processo Thyssen, che si concluderà in ultimo grado di giudizio a maggio, è stato un grande risultato, con il riconoscimento della responsabilità della società».
Come desidera essere ricordato?
«Con ironia e leggerezza, ci mancherebbe altro. Anni fa Lorenzo Necci, all' epoca amministratore delegato delle Ferrovie, dopo un interrogatorio si congedò così. "Dottor Guariniello, lei è davvero un rompic...". Lo disse senza malanimo, scherzando. La sua definizione forse era riduttiva, incompleta. Però mi è sempre sembrata un gran complimento».
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