Claudio Cerasa per “il Foglio”
E’ più importante il futuro dell’euro o è più importante il futuro dell’Italicum? L’incontro avvenuto ieri pomeriggio a Palazzo Chigi tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi rimette al centro della politica un tema chiave di questa legislatura che naturalmente è quello della legge elettorale.
Il presidente del Consiglio e il capo di Forza Italia hanno trovato un accordo di massima su alcuni punti cruciali dell’Italicum (5 per cento la soglia per le liste che si presentano da sole, 40 per cento la soglia da ottenere al primo turno per guadagnare il premio di maggioranza, ritorno alle preferenze eccezion fatta per i capilista).
Ma oltre alle soglie di sbarramento legate alla legge elettorale ci sono altre soglie altrettanto importanti che in questi giorni stanno smuovendo la pancia del centrosinistra in modo significativo, e quelle soglie sono legate a un numero magico europeo: il tre per cento. Problema: siamo sicuri che in Europa, come ha ripetuto ieri su questo giornale il ministro Padoan, il governo abbia fatto tutto quello che era possibile fare?
La minoranza del Pd (e non solo quella) rimprovera da giorni Renzi per non aver mostrato tutti i muscoli che avrebbe dovuto mostrare contro i burocrati europei e uno degli esponenti del Partito democratico più critico con il presidente del Consiglio è il deputato Alfredo D’Attorre (il caso vuole sia lo stesso deputato che ad aprile ha presentato un emendamento che vincola l’entrata in vigore della legge elettorale all’approvazione delle riforme costituzionali).
Dice D’Attorre: “Alla luce dei risultati ottenuti da questo governo in Europa credo sia evidente che il nostro presidente del Consiglio non ha portato a casa alcun risultato. In termini numerici, la grande rivoluzione del governo è questa: il fiscal compact ci obbligava a ridurre dello 0,5 il nostro deficit strutturale e noi invece lo ridurremo dello 0,34. Quello che è stato sbagliato in questi mesi, a mio avviso, è stato l’approccio generale. Renzi ha giocato con la parola flessibilità senza rompere la gabbia in cui si trova il nostro paese e senza trovare il coraggio di sfidare l’Europa, e anche i potenti dell’Europa, non con le battute ma con i fatti.
Sforare il tre per cento sarebbe stata una vera sfida all’Europa dei burocrati e ci avrebbe permesso di chiedere oggi quello che forse saremo costretti a chiedere a metà del prossimo anno, quando l’Italia, se le condizioni economiche non miglioreranno, mi sembra difficile che non finirà sotto un commissariamento. Sarebbe stato giusto ma non sarebbe stato comunque sufficiente a rimettere in riga il nostro paese.
Perché il problema dell’Italia, inutile prendersi in giro, è più complesso del gioco sui decimali, e coincide con la parola euro”. D’Attorre prosegue il suo ragionamento. “Mi stupisco che un presidente del Consiglio che ha fatto del coraggio la sua cifra politica non abbia messo a tema il vero problema dell’Italia e più in generale dell’Europa. L’euro così com’è oggi non è più sostenibile e sono convinto che non possa continuare a esistere una moneta unica senza che dietro questa ci siano un governo politico e uno economico capaci di gestire il bilancio dell’Eurozona”.
Chiediamo al deputato del Pd: uscire dall’euro è una sciocchezza o è diventata una possibilità? “Non credo alla tesi dei due euro. Credo ci siano due alternative concrete: o avviare un percorso federale che consenta alla nostra moneta di restare in piedi oppure si torna indietro alle monete nazionali ripristinando quella sovranità politica che gli attuali meccanismi europei oggettivamente non ci consentono. La situazione oggi non è sostenibile. E questo deficit democratico è ovviamente alla base delle manifestazioni di dissenso che, in varie forme, stiamo osservando tutti in molti paesi della zona euro”.
E i tempi? “Nella più ottimistica delle ipotesi qui si parla di anni, non di decenni. La data chiave potrebbe essere il 2017, quando alle presidenziali francesi verrà misurata la forza di Marine Le Pen e quando la Gran Bretagna con ogni probabilità si esprimerà sulla sua permanenza nell’Unione.
A febbraio – conclude D’Attorre – ero tra quelli che hanno tifato in modo sincero per il passaggio di testimone dal governo Letta al governo Renzi. Lo ero per una ragione precisa: per avere un partito più forte e un governo più forte.
Il Pd si è oggettivamente rafforzato ma il consenso ottenuto dal nostro partito finora in Europa è stato sprecato e i risultati raggiunti da questo governo, sinceramente, non mi sembrano così distanti da quelli che avrebbe potuto ottenere anche l’ex vicesegretario del Pd: Letta contava sul consolidamento dei rapporti diplomatici con l’Europa per ottenere una maggiore flessibilità, Renzi oggi pensa di accreditarsi con un conflitto verbale. Purtroppo il risultato è sintetizzabile con quel numero di cui vi dicevo: 0,34 per cento. E con tutta la buona volontà, tutto è tranne che una rivoluzione”.