Leonardo Coen per il “Fatto quotidiano”
Due governi, cento milizie, 1250 clan armati fino ai denti... e certi che rimpiangono Muammar Gheddafi, “meglio lui che il Califfo tagliagole”, è il sapido commento del leghista Gianluca Bonanno. Persino il novantenne Angelo Del Boca, massimo studioso del colonialismo tricolore, non nega che alla fine qualcuno rimpiangerà i tempi di Gheddafi, ovviamente nei panni dell’uomo politico che aveva tante qualità, non in quelli del dittatore che fino agli anni Settanta e Ottanta “inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della morte”.
Le qualità del Colonnello? Non le spiega il buon Del Boca che ha appena finito la riedizione della biografia di Gheddafi (con Laterza), ma sono intuibili: quelle che fanno comodo a chi investe e vuol guadagnare tanto, in fretta, al netto delle inevitabili tangenti: regime forte e autoritario, un solo interlocutore, garante della stabilità politica e sociale.
Le ragazze erano struprate da Gheddafi dai figli e dagli ufficili
L’escalation jihadista in Libia fa dire persino a Valentino Parlato, che è nato a Tripoli il 7 febbraio del 1931: “Gheddafi era una barriera importante contro i jihadisti”, la “sua” Libia era un Paese tranquillo, senza pericoli. E i libici stavano bene, perché il Colonnello dirottava parte della rendita petrolifera nel welfare. E invece...
Invece la Libia è diventata l’inferno. Altro che “Tripoli bel suol d’amore/ ti giunga dolce questa mia canzon!”. Altro che “terra incantata”, “sul mar che ci lega con l’Africa d'or/ la stella d’Italia ci addita un tesor”... Pochi giorni fa il grosso catamarano “San Gwann” della compagnia maltese Virtu Ferries, affittato dalla Marina Militare, riportava in Italia sessanta connazionali che lasciavano in fretta e furia Tripoli per approdare ad Augusta.
Il filmato, girato da un drone “Predator” della nostra aviazione, sembrava lo spezzone di un film già visto tante altre volte, immagini un poco sgranate, un senso di desolazione e tristezza, come del resto hanno addosso tutte le fughe. E la Libia, per gli italiani, lo è stata spesso, terra di fughe. Oltre che terra, come si diceva una volta, “di grandi opportunità”.
IL SOGNO INFRANTO DEGLI ITALIANI
Mi è venuto in mente un vecchio film italiano di guerra, “Bengasi” (1942) di Augusto Genina, con Fosco Giachetti che interpretava il ruolo di un capitano. Non soltanto un film di propaganda: infatti colpiscono le immagini assai realistiche dei coloni italiani che fuggono dalla città cirenaica perché gli inglesi avanzano e stanno per occuparla.
In un romanzo di Mirella Curcio che s’intitola “Libia travolta” (La vita felice, 2009) si raccontano gli anni drammatici della Seconda guerra mondiale, la distruzione di infrastrutture, colture, impianti idrici, installazioni industriali e gli effetti della gretta occupazione britannica. Molti italiani erano rimasti, speravano di ricominciare la loro avventura partecipando alla ricostruzione e alla modernizzazione di un Paese che avrebbe ottenuto l’indipendenza, il primo gennaio del 1952.
Ma i sogni, si sa, svaniscono all’alba. Il 21 luglio del 1970, la voce di Gheddafi – che aveva spodestato re Idris I l’anno prima con un colpo di Stato – annunciava che era giunto “il momento di recuperare la ricchezza dei suoi figli e dei suoi avi usurpate durante il dispotico governo italiano, che ha oppresso il Paese in un periodo oscuro della sua gloriosa storia”. Il nuovo leader della Libia aveva bellamente violato il trattato con l’Italia del 1956 in cui si vincolava il rispetto dei diritti delle minoranze.
1970, CENTO MILIONI DI DOLLARI DI DANNI
La comunità italiana dovette mollare la Libia nel peggiore dei modi. Un’espulsione di massa. Ventimila persone erano costrette a lasciar tutto quello che avevano. Un patrimonio valutato, allora, intorno ai 200 miliardi di lire: 37 mila ettari della terra migliore, coltivata secondo i criteri agricoli più avanzati; 1750 case, ville e appartamenti.
Cinquecento negozi, botteghe, ristoranti, alberghi, cinema, supermercati, studi professionali, 1200 auto, aerei e macchine agricole. Doveva essere quella degli italiani, una cacciata simbolica. Sarebbero rimasti in Libia solo 500 italiani, coloro che il Consiglio della Rivoluzione libica considerava “buoni”, utili al Paese. Erano tollerati altri 1800 pendolari: tecnici e dirigenti di imprese petrolifere e di lavori pubblici.
Stavolta l'esodo non ha quelle dimensioni: a metà gennaio risultavano operanti in Libia 624 italiani e 175 aziende. Il 15 febbraio erano rimasti in settanta, in gran parte tecnici dei cantieri edili e dei pozzi Eni. In questi ultimi giorni il danno patito dalle nostre imprese è stato di almeno cento milioni di dollari per le commesse in corso, secondo una valutazione approssimativa (i dati certi si sapranno tra qualche mese) della Camera di Commercio italo-libica (250 aziende associate, il 99 per cento piccole e medie imprese i cui interessi sono più difficili da tutelare, rispetto a quelli di Eni, Impregilo, Telecom che hanno rapporti istituzionali con le autorità libiche). Ma il conto è assai più salato.
Carezze tra Zapatero e Gheddafi
Quelle piccole e medie imprese hanno prodotto 3 miliardi di export lo scorso anno, perché non dimentichiamo che l'Italia è il primo partner commerciale della Libia. Siamo noi i maggiori acquirenti e noi i fornitori più importanti (per il 47 per cento si tratta tuttavia di prodotti della lavorazione derivati dal greggio libico esportato).
I dati sono impietosi, seguono, anzi anticipano il caos libico: c'è stato un calo di un terzo delle nostre forniture meccaniche nel 2014, ancor peggio (-58%) è andata per i mezzi di trasporto, quasi il 40 per cento di contrazione per quel che riguarda i metalli. Per non parlare dei crediti che le nostre imprese reclamano: ad ottobre del 2014, più di 650 milioni. Le prospettive? Un black-out del commercio.
L’Eni, per esempio, pensa ormai a concentrare il suo interesse sulle piattaforme offshore, anche se i suoi pozzi, sinora, sono funzionanti (a tenere in servizio gli impianti è personale quasi tutto libico, addestrato dai colleghi italiani). Il gasdotto Greenstream che parte dal centro di trattamento di Mellitah ed arriva al terminale di Gela, nel 2014 ha visto transitare 10 milioni di metri cubi di gas, mentre nel 2010 erano stati 25 milioni.
TUTTI I PROGETTI RIMASTI IN SOSPESO
Scappano, gli italiani, che hanno tenuto duro sin che potevano, aggrappati ai proclami post-gheddafiani di una Libia ambiziosa, pronta a investire miliardi di euro in progetti grandiosi ed imponenti trasformazioni infrastrutturali. Ma anche lì, in un paese senza legge, si è vista tutta la fragilità della Libia e la nostra diplomazia , capace di elaborare una politica spicciola, day by day o quasi.
L’Italia aveva – col governo Monti – rilanciato il discusso accordo firmato a Bengasi il 30 agosto del 2008 da Gheddafi e Berlusconi (ratificato dal parlamento italiano il 3 febbraio del 2009) che prevedeva la realizzazione dell'autostrada “dell’amicizia” dalla frontiera con la Tunisia a quella con l'Egitto, 1700 chilometri (valore dell’appalto: 3 miliardi di euro) più un’altra autostrada di 400 chilometri, quella “costiera” (963 milioni), e il coinvolgimento di duemila operai.
kamikaze isis in azione in libia
L’autostrada dell’amicizia farebbe assai comodo alle milizie dell’Is... il consorzio che la dovrebbe costruire vede alla guida Salini-Impregilo, con Condotte, Pizzarotti e la Cmc di Ravenna, insomma un affare politicamente ecumenico. Allo stato attuale, sono iniziati gli sbancamenti previsti nel primo lotto (400 km, 12 ponti, 8 aree di servizio, 6 parcheggi: costo previsto 944,5 milioni).
C’è la protezione delle guardie libiche. Ma fino a quando? E a chi fedeli? Persino uno come l’ex imprenditore Bruno Dal-masso, che ha 82 anni e dal 1975 vive a Tripoli (è il “custode” del cimitero italiano), ha deciso di tornare a Bordighera, ormai non ci crede più. Gheddafi gli aveva ritirato il passaporto, ma Dalmasso ha detto che adesso è molto peggio, “quelli che ci sono ora fanno diecimila volte più male di quello che ha fatto il Colonnello”.