Antonio Castro per “Libero Quotidiano”
Il tetto allo stipendio dei manager pubblici fissato a 240mila euro c’è, non c’è, riappare, è discrezionale, va ancora deciso (da Palazzo Chigi?), a chi spetta superarlo e come applicare l’esenzione.
La norma - contenuta nel decreto Competitività - che avrebbe dovuto livellare gli stipendi dei “servitori dello Stato” alla ragguardevole cifra di 12mila euro netti/mese, è tanto sofferta quanto pasticciata. Al Senato il testo del decreto approvato (con voto di fiducia) è stato prima emendato dai senatori (Ncd e Pd), poi ricorretto dal governo che ci ha aggiunto una postilla non trascurabile: il tetto di 240mila euro l’anno rimane per tutti, salvo per le società (non quotate come Poste e Ferrovie), che emettono «strumenti finanziari quotati o che rilasciano titoli scambiati nei mercati regolamentati». Un recinto un po’ troppo vago che schiudeva le porte alla cancellazione automatica del tetto pure ai dirigenti delle municipalizzate (emettono regolarmente Boc).
Peccato che l’emendamento al decreto Competitività (firmato da Mancuso, Caridi e Tomaselli) - approvato con voto di fiducia al Senato dalla maggioranza - così scritto faceva saltare l’intento sbandierato da Palazzo Chigi a fine giugno di rendere un po’ più normali i redditi dei dirigenti statali.
E allora si è pensato bene - o meglio un maxiemendamento del governo ha previsto una classifica - di assegnare proprio all’esecutivo la facoltà di indicare quali società rientrano nel famoso tetto e quali non devono applicarlo. Il governo - dalla conversione in legge del decreto (entro agosto), si è preso 90 giorni di tempo per approntare la lista dei manager salvati e di quelli da decurtare.
FIDUCIA RENZI ALLA CAMERA FOTO LAPRESSE
Il problema ora non è solo il tetto ai redditi dei manager statali. C’è infatti da sistemare un po’ di pasticci combinati per la fretta a Palazzo Chigi e dintorni. Infatti ieri la riunione governo-maggioranza a Montecitorio (convocata prima per il pomeriggio, slittata alle 18 e poi rinviata ad oggi), ha deciso che ogni ministero entro oggi presenterà alle commissioni competenti gli emendamenti al testo approvato dal Senato.
Secondo le indiscrezioni che circolano saranno circa una ventina le correzioni governative al testo che verranno avanzate. Oltre alla pasticciata norma sul tetto agli stipendi dei dirigenti statali o parastatali, c’è il problema di rivedere la seconda soglia (ora fissata al 25%), per l’Opa obbligatoria per le società quotate.
FIDUCIA RENZI ALLA CAMERA FOTO LAPRESSE
Un modifica apportata giusto qualche giorno fa da Palazzo Madama che metteva a riparo (o rendeva più complicato), mettere le mani sulle società quotate. Poi si vorrebbe anche intervenire, con appositi correttivi, sul mega assegno che via XX Settembre dovrebbe girare a Poste (535 milioni che il Tesoro deve rimborsare per effetto di una sentenza europea). Palazzo Chigi ha saputo del maxi esborso solo a giochi fatti e non vuole proprio sganciare mezzo miliardo ora.
Ma oltre agli aggiustamenti governativi (importanti anche quelli sugli incentivi e sul biogas) - visto che il testo dovrà comunque tornare al Senato per la terza lettura - ci sono i circa 800 emendamenti dei parlamentari. E dentro c’è un po’ di tutto.
Il problema ora sono i tempi. Il testo approvato al Senato - e che oggi verrà riscritto dal governo alla Camera - dovrà tornare a Palazzo madama per l’approvazione definitiva. Il decreto Competitività decade - se non convertito - il 23 agosto, quindi c’è veramente poco tempo per la correzione in commissione, l’approvazione a Montecitorio (scontata la fiducia), e la spoletta di nuovo a Palazzo Madama.
Poi, dall’approvazione parlamentare, si cominceranno a contare i 90 giorni per conoscere la benedetta lista dei manager salvati e di quelli “tosati” a 240mila euro. A spanne si arriverà alle porte di Natale per sapere chi Palazzo Chigi ha premiato e chi no. Come se non bastasse dal Quirinale tornano a soffiare venti di irritazione per questo decreto omnibus, già criticato in precedenza.
Sempre che - una volta approvato il testo definitio - qualche alto dirigente della macchina pubblica non prenda cappello e se ne vada a lavorare nel privato, oppure in pensione, evitando la tagliola dei 240mila euro. E poi - visto che si tratta di contratti di lavoro in essere - c’è sempre il ricorso alla magistratura. Una modifica unilaterale del contratto di lavoro, così come una decurtazione dello stipendio, rappresenta nei fatti materia viscida e da contenzioso. Tanto più che la norma sul tetto massimo prevede una discrezionalità ampia (la decisione del governo), e una discriminazione tra manager che potrebbe aprire le porte proprio ad un ricorso per incostituzionalità, magari.
I tagli lineari decisi negli anni passati (come quello sulle pensioni dei magistrati), sono stati tutti ripetutamente cassati, costringendo il governo a rimborsare ciò che era stato scippato. Insomma, un gran pasticcio - quello sui tetti agli stipendi - che di concreto lascia solo le slide di presentazione in sala stampa a Palazzo Chigi. Forse sarebbe stato meglio prevedere che gli emolumenti dei top manager fossero agganciati all’andamento delle società. Peccato che riportino - quasi tutte - un preoccupante profondo rosso sui bilanci.