IL BULLO GONGOLA: “LI HO SPIANATI. QUANDO BERSANI E D’ALEMA SI METTONO INSIEME MI FANNO UN GRAN FAVORE. IL RANCORE DI MASSIMO CI DÀ UNA MANO: E’ ANCORA INCAVOLATO PER LA STORIA DELLA NOMINA EUROPEA”
Maria Teresa Meli per “Il Corriere della Sera”
«Li ho spianati»: al termine della riunione della direzione, Matteo Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. È riuscito a staccare una buona parte della minoranza dalla «vecchia guardia». Non solo, è convinto che «ogni volta che Bersani e D’Alema si mettono insieme mi fanno un grande favore e un bello spot». «Massimo, in fondo — confida ai collaboratori — con tutto quel rancore ci sta dando una mano. Ve l’avevo detto che era ancora incavolato nero per la storia della nomina europea».
Il premier-segretario ha fatto una piccola concessione all’ala più moderata della minoranza (il licenziamento disciplinare da definire) che ha contribuito a dividere il fronte dei suoi oppositori. Operazione a cui ha contribuito un incontro conviviale ieri tra i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il capogruppo Roberto Speranza e il presidente del partito Matteo Orfini.
Bersani e D’Alema masticano amaro per le defezioni e, ostentatamente, mentre il segretario parla guardano i loro iPad. Versione normale quella del primo, un nuovissimo mini il tablet dell’ex ministro degli Esteri che, ogni tanto, interrompe la lettura per fare commenti sprezzanti che, poi, ripeterà sul palco. Ovviamente, non applaudono. Ma il presidente del Consiglio non sembra troppo preoccupato per le reazioni dei due, anzi.
C’è solo una cosa che gli dà fastidio, come confida ad alcuni compagni di partito: «La strumentalizzazione di un tema importante come quello del lavoro per prendersi una rivincita. Siccome non sono riusciti loro a fare dei cambiamenti non vogliono che li faccia io. Però vedo che anche nella minoranza c’è tanta gente che capisce che bisogna tutelare i giovani e i lavoratori e non l’ideologia dell’articolo 18».
Ma c’è anche un’altra operazione che ieri Matteo Renzi ha fatto. Non riguarda il partito, bensì i sindacati. Invitandoli per la prima volta dopo mesi a un incontro a Palazzo Chigi proprio nel giorno in cui si è sancita la divisione tra la Cgil da una parte e la Cisl e la Uil dall’altra, spingerà ancora di più Susanna Camusso sulla strada dell’isolamento, mettendola in difficoltà, e tenterà nello stesso tempo di recuperare il rapporto con il leader della Fiom Maurizio Landini.
Certo, la partita non è finita. Ora si sposta al Senato, dove i numeri sono ben diversi da quelli della direzione. Lì i parlamentari sono quelli scelti da Bersani nelle elezioni del 2013. «Le decisioni si devono rispettare, come facevo io quando ero in minoranza», dice Renzi. E comunque non è la prima volta che il segretario-premier forza la mano e ottiene risultati, anche se pure stavolta ha seguito i consigli di Napolitano che lo ha invitato a smussare asperità e contrasti.
«La musica è cambiata», continua a dire il premier. Che vorrebbe togliere una volta per tutte al suo partito quella che definisce «la coperta di Linus» del passato ideologico della sinistra. Insomma, non vorrebbe più sentire Massimo D’Alema pronunciare la parola padrone quando si parla di un «imprenditore che si spacca la schiena per aprire l’azienda» e che magari «deve mandare a casa dieci persone non perché è cattivo» ma perché è costretto e «sta allo Stato farsene carico».
Quello che stupisce Renzi (e stupisce anche i suoi) è che proprio nello stesso momento ci sia una parte dell’establishment e della minoranza del Pd che «vogliono farmi fuori». Il presidente del Consiglio ha già detto di credere alle coincidenze. Però si è anche convinto che questo «gruppo non unito» ce l’abbia con lui perché fa le cose «senza chiedere il permesso».
Insomma, senza farsi condizionare. Ma su questo il premier non cambierà idea: «Non scenderò a patti con quella parte di establishment che si sente spodestata e rivuole il potere per condizionare la politica. Sia chiaro: o noi o loro». E sia chiara anche un’altra cosa, fa sapere a fine giornata il presidente del Consiglio: «Non è finita qui». Nelle intenzioni dell’inquilino di Palazzo Chigi la «rivoluzione soft» (ma si può definirla ancora veramente tale?) continua.