IL CACCIATORE DI VIRUS - MAURIZIO BARBESCHI, LO SCIENZIATO AI BORDI DELLE GUERRE, INSEGUENDO I FOCOLAI DELLA SARS, GLI ALLARMI DELLE PANDEMIE DI AVIARIA E SUINA, LE STRISCE DI SANGUE GENERATE DA EBOLA, GLI ARSENALI BATTERIOLOGICI FUORILEGGE
Pino Corrias per il Venerdì di Repubblica
Nelle nostre vite ordinarie cerchiamo di stare il più possibile alla larga dai virus. Maurizio Barbeschi, 53 anni, scienziato - faccia, fisico, capelli e barba da rugbista - fa l’esatto contrario. Viaggia il mondo inseguendo i focolai della Sars, gli allarmi delle pandemie di Aviaria e Suina, le strisce di sangue generate da Ebola, gli arsenali batteriologici fuorilegge, oltre ai cimiteri di esseri viventi, paesaggi e cose che si lascia dietro il virus più pericoloso e più distruttivo del pianeta, l’uomo.
Barbeschi lavora per l’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità, nella sezione di “Allerta, sorveglianza e risposta”. Fa base Ginevra. Viaggia duecentocinquanta giorni l’anno. E solo in punti speciali del mondo, dove il mondo va in pezzi. Ultime tappe: la Siria, l’Iraq, la Sierra Leone, la Nigeria, l’Afghanistan. In caso di ispezioni internazionali viaggia a bordo di Jeep blindate, protetto dalle insegne dell’Onu e dalle tute NBC, quelle anti contaminazione nucleare, biologica, chimica.
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Sta al centro delle pandemie e ai bordi delle guerre. Mette in sicurezza i luoghi dei “Mass Gatherings”, gli eventi di massa, come le Olimpiadi di Londra o l’ultima Coppa d’Africa che si è giocata in Guinea Equatoriale. Fa l’esame del sangue ai vivi e a morti. Organizza difese. Organizza offensive. Salva vite. Qualche volta anche la sua.
Ora Barbeschi è stato chiamato in Siria, dove le truppe di Assad stanno usando bombe al cloro sui civili: “Sappiamo che l’esercito lancia dagli elicotteri barili di tritolo e cloro. Il tritolo uccide, il cloro avvelena e brucia quelli che contamina. Ma soprattutto persiste sufficientemente a lungo impedendo ai soccorsi di avvicinarsi. A Ibdil, due settimane fa, tre bambini sono morti dopo ore di agonia, perché nessuno si poteva accostare”.
Barbeschi è appena tornato da Riyad, Arabia saudita, dove era andato per occuparsi di un focolaio della Mers, la cosiddetta sindrome respiratoria mediorientale, che ricompare ogni anno in aprile, con tassi di mortalità vicini al 50 per cento, secondo gli ultimi dati della scorsa epidemia: 480 morti su 1.000 casi.
“Del virus che la provoca sappiamo pochissimo, né come si trasmette, né da dove arriva, forse dai cammelli. Ma in quell’area, il prossimo autunno, arriveranno milioni di pellegrini diretti alla Mecca. Il nostro compito è enorme: prevenire tutti i rischi di contagio”.
L’ultima volta che gli hanno sparato addosso era a Damasco, in Siria, due estati fa. Stava cercando con la sua equipe di ispettori Onu le tracce del gas Sarin usato dall’esercito di Assad nella guerra civile. “Viaggiavo sulla prima di quattro jeep. Stavamo varcando la soglia di un quartiere di Damasco, detto Moadamiyah, isolato da dieci mesi, quando due cecchini ci hanno tirato a raffica da due punti diversi. I vetri blindati ci hanno protetto. Siamo filati via tutti. Abbiamo cambiato la mia jeep e siamo tornati dentro ad esaminare le vittime, a prendere i campioni che hanno provato l'uso di Sarin sui civili inermi”.
Quella volta ha visto cose che non scorda: una intera popolazione che da mesi si nutriva di cani e di topi, un medico in lacrime al ricordo delle pile di corpi di bimbi, un padre ridotto a un fantasma che chiedeva aiuto tenendo in braccio la sua bambina morta da chissà quanti giorni. E ha visto gli ospedali scavati nei tunnel sotterranei, “perché in quella guerra senza regole, senza linee del fronte, anche gli ospedali sono target militari primari”.
Barbeschi si è laureato in Chimica teorica alla Sapienza di Roma. Tesi a Budapest. Specializzazione all’università di Berkeley, California, e al Mit di Boston. Racconta: “Ho studiato certe molecole complesse di carbonili che trattate a temperature e pressioni vicino allo Zero assoluto finiscono per rompersi e diventare dei formidabili catalizzatori. Cioè utilissime all’industria”.
Qualunque cosa voglia dire, trasformare molecole e qualche volta studiare come distruggerle è diventato il suo destino. A cominciare dal suo primo incarico, durante il servizio militare: smantellare negli impianti di Civitavecchia le scorte di iprite abbandonate dai tempi della prima guerra mondiale. E trent’anni dopo dare la caccia a Ebola ricomparsa nei villaggi della Sierra Leone e della Guinea, dove è stato individuato il paziente numero zero, un bambino forse infettato dal sangue di un pipistrello o di una scimmia, e dove è ricominciata una guerra che ha messo in allarme il mondo.
Molte delle procedure di sicurezza adottate dagli aeroporti per arginare l’infezione, a cominciare dalla Nigeria la scorsa estate, sono dipese anche dal suo lavoro. Spiega: “Era il punto cruciale del nostro intervento, il più urgente per impedire l’infezione globale”.
Dopo l’iprite, e dopo le prime missioni, Barbeschi si accorge che quel lavoro gli piace. Lo fa sentire utile. Specialmente quando si tratta di andare in quei posti da dove tutti fuggono. “Scopro che nelle emergenze estreme mi trovo benissimo, come i giocatori di rugby nel fango”.
Quando entra in vigore la moratoria internazionale sulle armi chimiche - firmata a Parigi nel 1993, ma operative dal 1997 - diventa uno degli specialisti addetti alle ispezioni 'politiche' e ai controlli degli arsenali militari. Con l’equipe guidata da Ralph Trap, analizza lo smantellamento degli armamenti in Russia, Iran, USA e Cina. Dopo la prima guerra del Golfo e dopo l’11 settembre, fa parte degli ispettori Onu mandati a cercare le armi di distruzione di massa di Saddam in Iraq: “Un lavoro cominciato nel gennaio 2003, molto accurato, durato mesi, con tutti gli occhi del mondo addosso”.
Ma siccome arsenali da smantellare non ne trovano (“la nostra prima regola è l’indipendenza dagli stati, dai militari, dai politici”) Bush e Blair ottengono di smantellare loro, gli ispettori. Sono i tempi della Coalition of the Willing, la coalizione dei volenterosi, che aspetta il casus belli per invadere l’Iraq, vincere la”guerra contro il terrorismo”, ma soprattutto vincere le rispettive elezioni in patria.
“Mi ricordo il giorno dell'ultimatum, il pomeriggio in cui siamo partiti dall’aeroporto di Bagdad sull’ultimo aereo Onu, diretto a Larnaka, Cipro. Gli iracheni che anni prima ci avevano sbattuto fuori malamente dai confini, questa volta ci tenevano per la giacca, non volevano lasciarci andare. Perché sapevano che subito dopo sarebbero iniziati i bombardamenti e la guerra”.
Poi si sa come sono andate lo cose, Bagdad conquistata senza incontrare resistenza in 12 giorni. Bush e Blair che esultano dentro tutti gli specchi delle tv planetarie: “Abbiamo vinto!”. Mentre Hans Blix, il capo degli ispettori Onu già prevedeva l’epilogo: “L'Occidente perderà, tra qualche anno ce ne andremo con la coda tra le gambe”.
Guerre e pestilenze non sono un buon punto di partenza per ammettere l’esistenza di un buon Dio in cielo. Né per giudicare con leggerezza il cuore degli uomini qui sulla Terra. Eppure Barbeschi crede “nel Dio delle piccole cose” e nella “fondamentale bontà dell’essere umano”. Dice: “Gli ingranaggi di tanti sistemi, quelli politici, militari, economici, religiosi, trasformano l’uomo. Lo spingono a compiere cose orribili. Oppure gesti meravigliosi”.
Misura il suo ottimismo da eventi niente affatto trascurabili. Il primo è privato, si chiama Jacqueline, sua moglie, metà armena, metà libanese, conosciuta in aereo parlando di angeli. Il secondo ci riguarda tutti: “Dopo la moratoria delle armi chimiche, sono stati distrutti i tre quarti degli arsenali nel mondo. Se avessimo fatto la stessa cosa con il nucleare, oggi gli Stati avrebbero al massimo una ventina di bombe atomiche a testa, non 20 mila. E il mondo sarebbe un posto più sicuro”.
Giudica il terrorismo islamico la conseguenza di tanti errori nostri. “Ma anche del fatto che quel fanatismo religioso vive in un presente storico in ritardo di 400 anni. Fanno quello che in nome delle religioni facevamo noi occidentali nel sedicesimo secolo, ma con le armi e la propaganda del ventunesimo”.
Il mondo globale è il teatro della sua sfida quotidiana. Perché tutto si sposta così velocemente che davvero un battito d’ali in Cina, magari di un pollo ammalato di Aviaria, è in grado di generare una tempesta di nuovi virus in Europa. Sa che la posta in gioco è sempre altissima, “che Ebola, un virus così poco evoluto da uccidere chi lo ospita”, può mandare in tilt il sistema sanitario e il sistema nervoso di interi Paesi.
Ma come nel rugby che gioca davvero nel tempo libero a Ginevra (“sono un pilone naturale”) Barbeschi crede nel gioco di squadra e nella intraprendenza dei singoli, per vincere la partita. “L’esperienza mi ha insegnato che in questa corsa a salvare il mondo non conta solo il Consiglio di sicurezza dell’Onu, o i trattati, o i governi planetari. Contiamo anche noi, singoli uomini, capaci di un po’ di coraggio”.
Dice che a insegnarglielo è stato un ragazzino con una bicicletta blu, un giorno, in Siria. “Eravamo appena entrati Ghouta, quartiere sotto bombardamenti costanti ed appena gassato e non sapevamo come raggiungere l’ospedale per portare aiuti e interrogare i sopravvissuti. Caldo infernale. Noi dentro i Toyota blindati e la centrale Onu collegata con tutti i satelliti del mondo e pure con le portaerei nelle acque del Golfo che ci coprivano le spalle.
Bè, non sapevamo se andare avanti, a destra o a sinistra. Non c’erano più mappe da seguire, era tutto un orizzonte di macerie. Dal nulla spunta questo ragazzino scalzo su una bicicletta blu e ci dice: seguitemi! Pedala come un fulmine e noi tutti dietro, con i satelliti, gli elicotteri, le porterei.... Ci porta dritti a questo ospedale che stava nascosto sotto la polvere, in uno scantinato. E quando siamo arrivati è stata una specie di festa di abbracci. Non avevano più medicine né acqua. Gli abbiamo dato tutto. E a salvarli è stato un ragazzino”.