CHE CI RESTA DI ANDREOTTI? - IL CALCO DELLA CELEBRE GOBBA VISIBILE, IN FORMATO DEBITAMENTE FETISH, SULLO SCRANNO OCCUPATO A PALAZZO MADAMA

Filippo Ceccarelli per "la Repubblica"

Se n'è andato, come diceva lui, «all'altro mondo». Espressione molto romana, tra il vago e il reticente, attraversata com'è da un fremito di pudore. Ma per nessun altro uomo politico come per Andreotti il classico dilemma dell'aldilà, Inferno o Paradiso, inesorabilmente si proietta nella più stralunata e insieme appropriata dimensione - e non solo perché in vita fu detto «Belzebù».

A chiamarlo come il capo dei diavoli fu Bettino Craxi, che pure non era uno stinco di santo. Erano i primissimi anni 80 e c'entrava la P2, per cui Gelli sarebbe stato solo «Belfagor», un demonio minore. Ma troppe altre sulfuree leggende aleggiavano già da allora su un personaggio che pareva alimentare la sua stessa leggenda nera: golpe cavalcati o sventati, spioni come Giannettini contraddetti e tuttavia protetti, grotteschi palazzinari in vena di regalie («A Fra', che te serve?»), bancarottieri in odore di mafia alla Sindona aiutati oltre ogni ragionevole prudenza; «manca solo - diceva lui - che mi accusino di aver innescato le guerre puniche».

E però, ora che se n'è andato, non s'immaginano quanti tesori di arguzia, quante sontuose allusioni abbia speso Andreotti per ingannare ed esorcizzare la morte. Da cui peraltro era attratto. Forse perché bambino accompagnava un parroco a impartire l'estrema unzione ai moribondi. Forse perché la paura della morte era anche per lui la molla segreta che l'aveva spinto in quel gioco selvaggio che è il potere.

Al centro di Roma, oltretutto, dove lui è nato e cresciuto, non c'è chiesa barocca che non mostri qualche teschio e ossa scolpite nel marmo lucido, ma anche autentici reperti organici, su cui comunque riflettere riguardo alla provvisorietà delle cose terrene. Così frequentava funerali con serena rassegnazione e scolpiva sapidi necrologi su quanti via via scomparivano dal suo orizzonte con il pietoso e al tempo stesso fiero sollievo del sopravvissuto. Non di rado, di qualcuno che in vita era stato cattivo o malaugurante nei suoi confronti, faceva notare che nel frattempo quello se n'era andato all'altro mondo, mentre lui - specificava - era ancora lì.

Lì dove, precisamente, è difficile dire. Sulla terra, forse. O magari a Palazzo Chigi o in qualche altro luogo segnalato dal «tappeto rosso», piuttosto che dallo «zerbino », o pezza da piedi che fosse.

Sempre da bambino, anzi più precisamente da chierichetto, si narra che partecipasse alle processioni tenendo in mano un cero e anche per questo certi ragazzacci lo prendevano in giro. Taci un giorno, taci un altro, il piccolo Giulio mostrò una grande pazienza, poi al terzo si «scocciò» - altro suo tipico verbo - e spense il cero nell'occhio del discolo più a portata di mano.

Distingueva con qualche buonsenso tra morte lenta e morte secca, improvvisa, apoplettica. Quest'ultima a suo giudizio favoriva il lavoro degli storici e la sua personale curiosità. Una volta confessò che il massimo del piacere sarebbe stato «visitare» lo studio di un cardinale crepato di schianto, poche ore prima, in modo che il poveretto non avesse avuto il tempo di far sparire gli altarini o di infiocchettare gli indispensabili scheletri nell'armadio.

E tuttavia sapeva anche essere amabile, molto educato e cortese nella sua indubitabile freddezza; e sempre ricordava ogni cosa con prodigiosa memoria. Aveva una testa molto grande, ossuta e ricoperta di capelli che sulla nuca prendevano l'aspetto di piume d'uccello; ed era molto più alto di quel che si poteva pensare.

A proposito del suo pallore, a metà degli anni 70 ebbe un pubblico scambio con Pasolini; poi di nuovo il cereo incarnato andreottiano venne notato nel 1992 dal ministro della Giustizia Martelli la mattina dei funerali di Salvo Lima. In quel caso non ci furono repliche, quel volto livido e impietrito esprimeva meglio di qualsiasi altro segno l'arrivo del cataclisma: «Domani vedremo venire la valanga, la triste valanga degli uomini di Stato».

Pietro Nenni e diversi altri milioni di italiani lo chiamavano «il gobbo». Tale evocatissima gibbosità è da intendersi come l'emblema glorioso e beffardo di una classe politica che non aveva avuto il tempo, tantomeno la vanità di preoccuparsi delle proprie storture estetiche, e anzi da esse traeva potenza e virtù. Il calco della celebre gobba è oggi visibile, in formato debitamente fetish, sullo scranno occupato da Andreotti a Palazzo Madama, come pure documentato dalla impressionante foto che compare nell'ultimissima edizione della fortunata biografia di Massimo Franco (Mondadori, 2008).

Soffriva di emicrania e in proposito - i casi della vita e della morte! - si scambiò ricette con Mino Pecorelli, che poi le procure accusarono di aver fatto ammazzare. Per via del memoriale Moro, che il generale Dalla Chiesa avrebbe recuperato anzitempo e che di Andreotti conteneva, come poi si potè leggere, un terribile ritratto.

Ragion di Stato e frivolezze d'altri tempi si mischiano oggi in un ricordo da cui risulta molto difficile separare il chiaro e lo scuro. Faceva collezione di campanelli. Si dichiarò alla futura moglie, donna Livia, detta «la Marescialla», durante una visita al cimitero. Qualche volta giocava a gin-rummy. In una rara occasione mondana una signora esuberante lo prese sottobraccio per condurlo su una pista da ballo: «Non ho mai ballato con un presidente del Consiglio», gli disse, «Neppure io» rispose lui gelido, e tenendo fermi occhi e busto, ma lavorando di piedi e gambe, prese ad allontanarsi dalla svenevole scocciatrice.

Erede di De Gasperi, capocorrente di Lima, Sbardella, Ciarrapico, protettore dei ciellini, forse autore (con lo pseudonimo di Giulio Romanotti) di un volume di archeologiche intercettazioni telefoniche. Però marito quasi perfetto, padre un po' assente, nonno tenerissimo: «Non ama le vacanze, non ama il mare, non ama le passeggiate, non ama prendere il sole» ha raccontato la figlia Serena: «La verità è che se non fa politica si annoia».

Ha sempre dormito pochissimo. Scriveva con un pennarello a punta sottile, grafia ordinata, ma incomprensibile. Ha conservato quintali di documenti, oggi ordinati nel mitico archivio presso l'Istituto Sturzo. Andava a messa molto presto e i poveri, che avevano
imparato le sue abitudini, si aspettavano all'uscita una divertita distribuzione di banconote sul sagrato. Nel vecchio ufficio di piazza Montecitorio, dietro una tendina, c'era una specie di dispensa con generi alimentari per i più indigenti fra i suoi clientes.

«A studio», come lo definiva, Andreotti riceveva gli amici nella stanza da bagno mentre si faceva fare la barba dal barbiere pensionato della Camera; e in tempi non ancora segnati da riemersioni di regalità accoglieva il suo amico e vegliardo giornalista Frattarelli: «Emilio, siediti sul trono!» e con il lungo, sottilissimo dito indicava il bidèt.

Sublime leader anti-retorico, come mai l'Italia ne ha avuti. Al suo talento giornalistico si devono alcune straordinarie sintesi rimaste nella memoria collettiva riciclando immagini di vita quotidiana, «il sassolino nelle scarpe», non rimarrò «in panchina», mi riprendo «i voti in frigorifero », «vado in Cina con Craxi e i suoi cari». Andreotti pronunciava tali freddure a denti stretti, talvolta accompagnandole con una specie di mormorio che gli faceva eco, «
ehm-ehm», oppure il triplice «‘nsomm‘nsommm-‘nsomm".

La gente rideva perché Andreotti è sempre stato considerato un uomo spiritoso e un battutista deluxe. In realtà il suo umorismo pare qualcosa di più complesso, per nulla affatto spensierato, come del resto la sua vita e la sua stessa memoria.
Altre due famose sentenze vale qui la pena di menzionare.

Quella, pare di provenienza curiale, che dice che a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre; e l'altra, pure esportata alla Commedie francaise e ne Il Padrino numero 3 (dove viene pronunciata dall'assassino durante uno strangolamento), secondo cui «il potere logora chi non ce l'ha». Non si discute qui della sostanziale veridicità di tali massime, ma dello slittamento che mettono in luce e che spesso ha portato fatalmente Andreotti a traslocare dal più celeste scetticismo a un nero, ansiogeno e mefitico cinismo. Peraltro da lui duramente pagato.

Vedi, al di là del bacio a Totò Riina, l'insieme delle carte dei Pm di Palermo e Perugia, e vedi anche le assoluzioni a metà. Imputato modello, ha fatto in tempo a riconquistare, se non l'innocenza, almeno la rispettabilità. Nel frattempo ha adottato dei profughi albanesi. Ha lasciato che alle elezioni si presentassero dei suoi omonimi. Una volta ha votato per Pippo Franco (e per Giulia Buongiorno).

Ha recitato con Alberto Sordi e girato diversi spot, uno anche con Valeria Marini, e in un impressionante poster con un dito nel gorgonzola. Ha benedetto tre generazioni di imitatori e vignettisti. Ha raccontato il suo intenso rapporto con il cinema in una interminabile serie di sedute con Tatti Sanguineti, ingiustamente neglette dalle tv del duopolio. E' qui che ha espresso tutta la sua avversione per un sistema mediatico inoltratosi ormai nella «endovaginoscopia» o nella «monta taurina» del Grande Fratello.

Una sua considerazione, di cui si trova un frammento su YouTube, celebra il senso della sua più che mutevole linea politica: «Che poi, quando uno si volta, quello che c'è a destra diventa di sinistra». Su Andreotti, colto all'apice della sua storia, fine anni 80, Gaio Fratini ha scritto uno splendido epigramma che si conclude con un monito, pure a futura memoria: «Biografi, per lui il potere è un gioco/ di prestigio che muta i dissidenti/ in truci adulatori impenitenti,/ e il gelo russo in libico fuoco ».

Tra Breznev e Gheddafi, secondo Pannella, è stato comunque «il miglior ministro degli Esteri». Per Rino Formica, e un po' anche per Cossiga, un capo di governo vaticano prestato all'Italia. De Chirico l'ha ritratto in giacca da camera; Guttuso vestito da cardinale. D'altra parte anche Talleyrand era un ecclesiastico: non gobbo, ma zoppo; e anche la nonna accoglieva i moribondi e gli dava l'estremo saluto.

In uno dei più profondi libri sul potere, "La rovina di Cash" (Adelfi, 1983) Roberto Calasso traccia un ritratto del politico francese che, riletto oggi, evoca inconfondibili archetipi andreottiani: «Non aveva idee, tanto meno opinioni, ma un oscuro torbido residuo di quella sapienza che soltanto "accenna"». Come pure: «Aiutava il caos a prendere una forma passabile». Per chi, «passabile », e soprattutto a quale prezzo, è ancora troppo presto per dire con compiuta onestà.

Ora che se n'è andato «all'altro mondo», si porta dietro il Passato. Ma così come accadde per Talleyrand, Andreotti diventa «qualcosa di ancor più misterioso e imponente; una pietra abbandonata in un campo, incisa da una mano ignota, secondo regole ignote. Questi sopravvissuti, sottratti a ogni discendenza, hanno fisionomie che spiccano solitarie: la loro inutilità è maestosa, la sapienza che forse non hanno e che certamente non vogliono trasmettere ci guarda in silenzio come ogni ricordo che accetta di distruggersi».

 

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