Giuseppe Marino per “il Giornale”
«Follow the money». Come dicevano i reporter del Watergate in Tutti gli uomini del presidente. E «seguire il denaro» in Libia significa seguire il petrolio, principale risorsa del Paese (vale l'85% del Pil) ora messa in crisi dagli scontri tra milizie e dagli attacchi dell'Isis.
Solo così si può capire cosa sta davvero succedendo nel Paese che intreccia la sua storia con la nostra dai tempi in cui la capitale si chiamava Leptis Magna ed era una provincia dell'impero romano. E, soprattutto, si può capire quali interessi sono davvero in gioco quando, come è successo questa settimana ad Hannover, Obama, Merkel, Renzi, Cameron e Hollande si siedono al tavolo a discutere di Libia. E non trovano una linea comune.
Ogni leader hai suoi problemi politici interni e i suoi equilibri da considerare, ma sul piatto c'è sempre l'obiettivo di riaprire il flusso di petrolio dalla Libia. Luca Longo, ricercatore italiano esperto di energia, ha realizzato un accurato dossier che mappa tutti i principali campi petroliferi in mani straniere del Paese.
Seguendo questa mappa, su cui si basa il grafico che illustra questa pagina, si capisce chi è interessato al rebus libico e perché. Americani, francesi, italiani, tedeschi, russi e canadesi hanno tutti impianti petroliferi che fino a qualche anno fa pompavano petrolio o gas dalle sabbie libiche. Ora la maggior parte degli impianti sono fermi, spiega Longo, ostaggio di un «puzzle energetico e tribale».
Al momento, spiega Longo, la produzione libica di idrocarburi è crollata dai 2 milioni di barili al giorno che rappresentano il suo potenziale, a mezzo milione. Il 70% proviene da pozzi gestiti dall'Eni, soprattutto offshore, protetti dalla Marina italiana. La National oil company, la compagnia petrolifera libica di Stato, è riuscita a sopravvivere al caos restando neutrale: divide i proventi tra tutte le milizie che spadroneggiano nel Paese, in particolare le due che governano a Tripoli e sulla Cirenaica.
«I terroristi del califfato - scrive Longo - non sono in grado di prendere stabilmente il controllo di pozzi, oleodotti, raffinerie o terminali petroliferi, ma a differenza di quanto avviene fra Iraq e Siria dove hanno il controllo dei pozzi e possono contare sull' alleanza clandestina con la Turchia il loro obiettivo in Libia è evidentemente quello di distruggere le infrastrutture che costituiscono la ricchezza del Paese per fare collassare entrambe le fazioni governative».
L'Italia dunque, ha certamente interesse a stabilizzare Tripoli, ma al momento l' Eni gode di una situazione ancora privilegiata, mentre i francesi, presenti con Total, sono in difficoltà. La differenza si è vista al tavolo del G5 di Hannover: l'Italia frena sull' intervento, temendo che le fazioni libiche le si rivoltino contro, con conseguenze sull' estrazione del petrolio e l' immigrazione.
La Francia invece un pressing è fortissimo: bisogna intervenire assolutamente, i pozzi della Total languono da troppo tempo. È un' impresa difficile, viste le condizioni sul campo, ma il leader libico, dopo gli ultimi attacchi dell' Isis contro le guardie petrolifere libiche, teme che si blocchi la principale risorsa che può comprare il consenso delle fazioni. Senza il quale c' è solo il caos.