Testo di Slavoj Zizek per “la Repubblica”
Che fare con le centinaia di migliaia di disperati che, in fuga da guerre e carestie, aspettano in Africa settentrionale di poter attraversare il mare e trovare rifugio in Europa? Le risposte sono essenzialmente due. I liberal di sinistra esprimono il loro sdegno nei confronti dell’Europa che lascia annegare nel Mediterraneo migliaia di persone: il loro appello è rivolto a far sì che l’Europa si mostri solidale e spalanchi le sue porte. I populisti contrari all’immigrazione dichiarano che dovremmo difendere il nostro stile di vita e lasciare che gli africani risolvano da soli i loro problemi.
Le soluzioni sono entrambe pessime, ma quale è peggiore? Volendo parafrasare Stalin, sono peggiori entrambe. Gli ipocriti più grandi sono i fautori delle frontiere aperte: in privato sanno benissimo che una cosa simile non accadrà mai, dal momento che innescherebbe una fulminea rivolta populista in Europa. Si calano nella parte delle anime belle che si reputano superiori al mondo corrotto, al quale per altro sotto sotto appartengono.
Anche i populisti contrari all’immigrazione sanno molto bene che, lasciati a loro stessi, gli africani non riusciranno a cambiare le loro società. Perché? Perché noi, europei occidentali, impediamo loro di farlo. A precipitare la Libia nel caos è stato l’intervento europeo. A creare le premesse per l’ascesa dell’Is è stato l’attacco statunitense in Iraq.
La guerra civile in corso nella Repubblica Centrafricana tra il sud cristiano e il nord musulmano non è una semplice deflagrazione dell’odio etnico: le ostilità sono state innescate dalla scoperta a nord del petrolio. E Francia (collegata ai musulmani) e Cina (collegata ai cristiani) stanno combattendo per interposta persona un conflitto per il controllo dei giacimenti petroliferi.
Il caso più eclatante della nostra colpevolezza è il Congo che di questi tempi si sta nuovamente affermando come il “ cuore delle tenebra” dell’Africa. Sul Time Magazine del 5 giugno 2006, in copertina comparve il seguente titolo: «La guerra più letale del mondo». Quel titolo rimandava a un articolo nel quale si documentava nei particolari come, in conseguenza delle violenze politiche in Congo, nell’ultimo decennio vi fossero morte circa quattro milioni di persone.
A quell’articolo non fece seguito alcuna protesta umanitaria di rilievo, come è consuetudine che accada, quasi uno strano filtro avesse impedito a quella notizia di raggiungere e avere il suo pieno impatto. Volendo, potremmo essere cinici ed affermare che il Time scelse la vittima sbagliata nella battaglia per l’egemonia delle sofferenze: avrebbe fatto meglio a seguitare a usare quelle che compaiono nell’elenco dei soliti noti, le donne musulmane e la loro difficile condizione, l’oppressione in Tibet, e così via. Perché questa ignoranza?
Nel 2001, un’indagine delle Nazioni Unite sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali congolesi aveva riscontrato che il conflitto nel paese riguardava per lo più l’accesso, il controllo e il commercio di cinque risorse minerarie fondamentali: coltan, diamanti, rame, cobalto e oro. Dietro l’immagine di facciata di una guerra etnica, pertanto, intravediamo all’opera il meccanismo del capitalismo globale.
Il Congo non è più uno stato unito: è una pluralità di territori governati da signori della guerra locali, che vigilano sul loro pezzetto di territorio con eserciti che, di norma, annoverano bambini drogati. Ciascuno di questi signori della guerra ha rapporti d’affari con una società o una corporation straniera che sfrutta la ricchezza in buona parte mineraria di questa regione. Ironia della sorte, molti di questi minerali sono utilizzati per la produzione di oggetti hi-tech come laptop e cellulari.
Lasciate perdere quindi il comportamento disumano della popolazione locale: basterebbe rimuovere dall’equazione le aziende straniere dell’hi-tech e l’intero edificio delle guerre etniche alimentate da antichi rancori crollerebbe in pezzi. È da qui che dovremmo iniziare, se vogliamo davvero aiutare gli africani e fermare il flusso dei profughi.
Traduzione di Anna Bissanti
yarmuk campo profughi in siria