Laura Cesaretti per “il Giornale”
Nessuno se ne è accorto, ma la micidiale macchina da guerra Cgil che si candida ad essere «la vera opposizione sociale» a Renzi, ha fatto un flop clamoroso. E con lei i potenziali animatori di una scissione «da sinistra» del Pd.
In giugno, alla conferenza stampa di presentazione del referendum contro il pareggio di bilancio in Costituzione c'erano tutti: Susanna Camusso, Gianni Cuperlo e Stefano Fassina, Pippo Civati e Miguel Gotor, Alfredo D'Attorre e gli esponenti Sel. E c'era Danilo Barbi della segreteria nazionale Cgil. Obiettivo: «500mila firme in 90 giorni contro il fiscal compact» e «l'ottusa austerità» Ue. Le facce note dei politici servivano a lanciare mediaticamente la campagna, la macchina sindacale ad organizzarla.
Una volta portato a casa il risultato, i promotori sarebbero diventati un interlocutore obbligato per il governo, capaci di condizionarne la linea da sinistra e, un domani, di costituire il primo nucleo di un nuovo soggetto. Il governo quest'estate si è interrogato su come reagire («con la Cgil alle spalle, raccogliere le firme sarà un gioco da ragazzi», disse il viceministro Enrico Morando) ma ieri, gli stessi protagonisti sono improvvisamente rispuntati per lanciare - stavolta - una proposta di legge di iniziativa popolare con gli stessi contenuti ma un obiettivo assai più modesto: 50mila firme in un tempo imprecisato.
E il referendum, che fine ha fatto? Spulciando sul web, si riesce a trovare solo un ambiguo comunicato (titolo: «La battaglia continua») da cui, faticosamente, si deduce che si sono fermati a 400mila firme, e il referendum è fallito. Nel frattempo, mentre la Cgil buttava i moduli ormai inutili, a rinviare il fiscal compact ci ha pensato Renzi.