- VIA SETA: CONTE, CON CINA PATTO LIMPIDO, PER CRESCERE
(ANSA) - "Operiamo per un futuro di crescita e sviluppo e il memorandum con la Cina offre preziose opportunità per le nostre imprese", dice il premier Giuseppe Conte al Corriere della Sera sull'intesa con Pechino: il testo, "imposta la collaborazione in modo equilibrato e mutualmente vantaggioso", in una cornice "trasparente". E' "perfettamente compatibile" con la nostra collocazione nella Nato e nel Sistema integrato europeo: "Nessun rischio di colonizzazione", precisa Conte.
- VIA DELLA SETA: SALVINI, ITALIA NON SARÀ COLONIA DI NESSUNO
(ANSA) - "Non voglio che l'Italia sia una colonia di nessuno. Studiamo, lavoriamo, approfondiamo, valutiamo...". Lo ha detto il vicepremier Matteo Salvini, rispondendo a una domanda sul memorandum d'intesa con la Cina al termine della presentazione delle celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Leonardo. "Il memorandum con la Cina? Ne stiamo parlando. Se sono preoccupato? Non sono preoccupato" dice il vicepremier ai cronisti. "Se si aiutano le imprese italiane a fare business e a esportare i nostri preziosi prodotti io son contento. Però ovviamente c'è da valutare la sicurezza nazionale. Non voglio - afferma - che l'Italia sia una colonia di nessuno. Studiamo, lavoriamo, approfondiamo, valutiamo..."
- VIA SETA: CAV, È RISCHIO, SFIDA POLITICA E MILITARE
(ANSA) - "E' certamente una opportunità ma prevalgono in questo momento i rischi. Ieri nel Parlamento europeo è accaduta una cosa positiva, ha approvato un documento che dice attenzione alla Cina perché c'è in atto una sfida sul piano commerciale ed economico. E fa intravedere che la sua è una sfida anche sul piano politico e anche militare". Lo afferma il Presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ai microfoni di Mattino 5, intervenendo nella polemica sulla Via della Seta.
- INFRASTRUTTURE, TLC, FINANZA DENTRO IL PATTO CON PECHINO
Andrea Bassi per “il Messaggero”
Il senso politico del documento, è probabilmente quello contenuto nel secondo paragrafo al terzo punto, sotto il titolo: «Rimuovere ogni ostacolo al commercio e agli investimenti».
Si legge, testualmente, che le controparti si impegnano a «opporsi all' unilateralismo e al protezionismo». Cina e Italia, insomma, nel loro memorandum of understanding, l' accordo che la settimana prossima il presidente del Celeste impero, Xi Jinping, dovrebbe firmare con il primo ministro Giuseppe Conte, dichiareranno congiuntamente la loro opposizione alla dottrina Trump.
DANILO TONINELLI LUIGI DI MAIO GIUSEPPE CONTE MATTEO SALVINI
Al netto della sfida per la supremazia tecnologica che il presidente americano sta combattendo a furia di veti imposti agli alleati perché non usino i prodotti dei due colossi cinesi Huawei e Zte, il vero rischio per gli Usa è spingere il mercato europeo nelle braccia di Pechino.
Già a Davos, nel 2017, con Trump che annunciava la fine degli accordi di libero scambio, Xi si era eretto ad alfiere della globalizzazione con la sua Belt and Road, la via della Seta appunto. I quattro paragrafi del Memorandum sono ricchi di principi, ma anche di progetti concreti. Da subito, tuttavia, messo nero su bianco l' impegno ad appoggiare «le sinergie tra la via della Seta e le priorità identificate nel Piano di investimento per l' Europa e le reti trans-europee».
LE PRIORITÀ Se la priorità è far arrivare le merci nel Vecchio continente, servono porti, strade e ferrovie veloci, come quelle inserite da Bruxelles nelle reti Ten-T (più volte citati). Compresa la Tav, la Torino-Lione, parte integrante del Corridoio Mediterraneo, il collegamento che passa dalla Spagna e della Francia per poi attraversare le Alpi nell' Italia settentrionale in direzione est, toccando la costa adriatica in Slovenia e Croazia, per proseguire verso l' Ungheria. Il Memorandum, insomma, è un sostegno alla costruzione dell' opera.
Il paragrafo delle «aree di cooperazione» tra Italia e Cina è corposo. «Le controparti», c' è scritto, «collaboreranno allo sviluppo della connettività delle infrastrutture, tra cui investimenti, logistica e interoperatività nelle aree di interesse reciproco (come strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia - tra cui fonti rinnovabili e gas naturale - e telecomunicazioni)».
L' unico riferimento alle reti di comunicazione elettronica, e dunque alla spinosa questione del 5G, è contenuto in questa parentesi. Per il resto, nel documento, non ci sono altre tracce di possibili collaborazioni. Che tuttavia sono nei fatti. Il governo italiano ha fatto sapere a Washington che non bloccherà Huawei, le cui apparecchiature sono già in uso dai grandi operatori delle telecom italiane e sono state scelte dallo stesso governo per la rete per il WiFi pubblico. Èpoi contenuto un impegno, centrale per i cinesi, a semplificare al massimo i controlli doganali delle merci. C' è invece un altro passaggio che, probabilmente, non è passato inosservato per gli americani. È il capitolo che parla dell' ambiente.
I PUNTI DELICATI
Le parti, spiega il Menorandum, «collaboreranno nel campo della protezione ambientale, dei cambiamenti climatici ed altre aree di reciproco interesse», impegnandosi tra le altre cose, «a promuovere attivamente le direttive dell' Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici». Proprio quegli accordi dai quali Trump ha ritirato l' America.
XI JINPING MOSTRA I CAPELLI BIANCHI
Nel testo, poi, è prevista anche una collaborazione finanziaria. «Le controparti», si legge, «favoriranno il partenariato tra le rispettive istituzioni finanziarie per sostenere congiuntamente la cooperazione in materia di investimenti e finanziamenti, a livello bilaterale e multilaterale e verso paesi terzi, nell' ambito delle iniziative della via della Seta». Una clausola che potrebbe permettere ai cinesi di investire in infrastrutture in Italia. La connettività, secondo il Memorandum, riguarderà anche le persone. Saranno favoriti gli scambi tra università, in materia di salute e di turismo.
L' ultimo paragrafo, tuttavia, ricorda che quello che Cina e Italia si apprestano a firmare non è un trattato e non ricade sotto la legge internazionale. Dunque non c' è nessun impegno legale. Ma nemmeno lo si può considerare un accordo scritto sulla sabbia.
- MA ROMA VALE MENO DELL' 8% DEGLI AFFARI TRA UE E DRAGONE
Roberta Amoruso per “il Messaggero”
Impossibile oggi non fare affari con Pechino. Lo sanno bene i Paesi europei che devono fare i conti con il rallentamento dell' economia e che più degli Stati Uniti di Trump devono contare sulle prospettive e gli investimenti del Dragone per far tornare i conti sul Pil.
Ma l' Italia ha decisamente un motivo in più per irrobustire i ponti con Pechino. Lo dicono i numeri degli scambi.
Ma anche quelli degli investimenti. Se dunque nel 2017 i Ventotto hanno esportato verso la Cina merce per 198 miliardi, a fronte di un importato per 375 miliardi, il nostro Paese ha venduto ai cinesi oltre 13 miliardi di prodotti secondo i dati della Farnesina (20 miliardi per il dato lordo dell' Ice). Vale a dire meno dell' 8% della merce Ue che ha raggiunto il Paese asiatico.
Lì dove il dato complessivo dell' interscambio Italia-Cina arriva a 42 miliardi, in crescita del 9,2% rispetto al 2016, con un deficit commerciale italiano che continua a ridursi ma rimane sostanzioso. La consolazione è che l' Italia mantiene il quarto posto sia tra i Paesi esportatori che tra quelli importatori dalla Cina. Ma può fare molto di più. Basta dire che Parigi rimane davanti a Roma e che Berlino, il primo partner europeo del Dragone, è ben più avanti con esportazioni per oltre 90 miliardi.
Un gap profondo che potrebbe ridursi in maniera sostanziosa se davvero si alimentasse il flusso degli investimenti.
GLI INVESTIMENTI
LUIGI DI MAIO IN CINA CON MICHELE GERACI
Il punto è che la zampata del Dragone rimane comunque tra le principali preoccupazioni dell' Europa. E soprattutto degli Usa, visti i toni raggiunti in vista del Memorandum sulla Nuova Via della Seta. Così si spiega la cautela di Bruxelles e, soprattutto di Paesi come Germania e Francia, ad aprire un varco troppo ampio a Xi Jinping.
Per i francesi la soglia psicologica per tirare il freno a mano sono state la vendita ai ricchi capitalisti cinesi di oltre cento dei loro pregiati chateaux e poi di migliaia di ettari di suolo nazionale coltivato a grano. Per i tedeschi, invece, la linea è stata tracciata dalla cessione di circa il 10% del gruppo Daimler (Mercedez-Benz) al gruppo Geely che già nel 2010 si è presa Volvo e corteggia gli asset più glamour di Fca. Poi la guerra dei dazi e la Brexit hanno giocato la loro parte.
michele geraci giorgio napolitano mario monti
E così la stretta europea sugli investimenti del Dragone si è fatta sentire nel 2018 segnando un forte rallentamento del flusso di yuan tradotti in dollari pari al 70%, secondo l' ultimo studio di Baker McKenzie. In moneta contante, gli Fdi (Foreign Direct Investment) di Pechino in Europa, Svizzera compresa, sono crollati dagli 80 miliardi di dollari del 2017 ai 22,5 miliardi nel 2018. Tenuto conto però, che nel 2017 la parte del leone l' aveva fatta l' acquisizione della svizzera Syngenta da parte di ChemChina, per 43 miliardi di dollari, il calo sembra più di facciata che sostanziale e, a ben vedere, non riguarda nemmeno grandi Paesi Ue come Francia e Spagna.
Anzi, Francia, Germania, Spagna e Svezia hanno visto crescere gli investimenti cinesi anche nel 2018. A fronte di un calo del 21% per l' Italia che ha attratto investimenti per soli 800 milioni di dollari. Un duro colpo lo ha ricevuto il Regno Unito, tradizionalmente un Paese amato dagli investitori cinesi.
Ma nonostante il crollo del 76% (dai 20,33 miliardi del 2017), con i suoi quasi 5 miliardi, Londra rimane la preferita dalle aziende cinesi pubbliche e private. Segue a ruota la Svezia con 4,05 miliardi e una crescita quasi triplicata degli investimenti (+186%). In terza posizione c' è la Germania che ha visto arrivare 2,52 miliardi di dollari (+34% dai 1,89 miliardi del 2017). Non solo. Il 2018 sembra l' anno in cui i capitalisti cinesi hanno scoperto le opportunità, fiscali e non solo, offerte da piccoli Paesi Ue come il granducato del Lussemburgo e il regno di Danimarca.
Tanto che il primo ha incamerato ben 1,87 miliardi di dollari in investimenti (+1.000% rispetto ai 100 milioni del 2017) posizionandosi saldamente davanti a Francia, Spagna e Italia. Da parte sua, la Danimarca ha toccato i 1,1 miliardi (+1000%). E perfino il gruppo dei Paesi dell' Est europeo ha fatto il pieno dall' Ungheria (+185%), alla Croazia (+355%) alla Polonia (+162%). Difficile ignorare certi numeri e quanto l' Italia sia rimasta indietro.