Fabio Sindici per “la Stampa”
A Kerkemish, pochi metri dal confine con la Siria, gli archeologi scavano con il rombo degli aerei da guerra nelle orecchie. È ancora Turchia; ma dall’altra parte della frontiera sventola la bandiera nera dell’Isis che controlla questa parte del territorio siriano. E che del traffico clandestino di antichità ha fatto una delle maggiori fonti di finanziamento.
La zona degli scavi è protetta da un reparto di 500 soldati turchi, dotati di carri armati e postazioni di artiglieria. «Si sentivano le esplosioni delle bombe; ora la linea del fuoco si è spostata ad Est. Ma anche quando la zona dei combattimenti era vicina non ci siamo mai sentiti in pericolo», racconta Nicolò Marchetti, professore di archeologia dell’università di Bologna, che dirige la missione. Nel corso degli scavi sono venuti alla luce reperti splendidi: statue romane, lastroni di pietra scolpiti di epoca ittita, un pavimento a mosaico dal palazzo del re assiro Sargon II.
Il saccheggio in Siria
Un terzo dell’area archeologica è oltre il confine, intorno a Jarabulus, città siriana tenuta dai miliziani dello Stato islamico. «Per ora non siamo a conoscenza di scavi illegali considerevoli da quella parte», dice Marchetti. «Vicino Jarabulus si trovano reperti che hanno poco valore sul mercato collezionistico internazionale. O grandi steli assire difficili da trasportare. Il saccheggio avviene in altri siti importanti del territorio del Califfato, nella città greca di Apamea, che le foto dei satelliti mostrano crivellata di buchi. A Mari, uno dei centri più ricchi della civiltà mesopotamica, dove sono stati scavati solo i livelli meno antichi».
Verso Occidente ed Emirati
Secondo Marchetti, l’Isis ha a disposizione team di tecnici e manovalanza competente. Persone che sanno dove scavare. In grado di fare una prima valutazione del bottino archeologico. E network di riferimento per far uscire statue di divinità, fregi e corredi preziosi dalla zona di guerra.
Verso i ricchi mercati dell’Occidente, degli Emirati del Golfo, dell’Estremo Oriente. Una filiera complessa e ramificata, piste che si intrecciano con quelle della millenaria Via della Seta per svanire in collezioni private e nei conti di banche off-shore.
«La stima annuale di 2 miliardi e 200 mila dollari dell’Unesco sui proventi del traffico illecito di beni culturali nel mondo va rivista verso l’alto dopo il sacco dell’Iraq e l’ascesa del Califfato», ragiona Francesco Bandarin, fino a poco tempo fa vicedirettore dell’Unesco e ora consulente esterno dell’Organizzazione Onu per la cultura.
«Credo che siamo intorno ai sei-sette miliardi di dollari l’anno, come riportano alcuni centri studi americani. Ma si tratta solo di ipotesi. La quasi totalità delle transazioni resta sommersa». L’Antiquities Coalition, un’associazione di archeologi e studiosi di storia antica, valuta dai 3 ai 5 milioni di dollari il traffico dal solo Egitto negli ultimi tre anni.
Operai all’ombra dei mitra
Di certo, si sono spostate le rotte. I principali fornitori di tesori archeologici illegali non sono più l’Italia e la Grecia, il Sud-Est asiatico, o lo stesso Egitto. Il grande sacco avviene nel Medio Oriente e nell’Asia centrale. In Iraq, le aree soggette agli scavi selvaggi nei dieci anni passati superano di gran lunga le esplorazioni archeologiche ufficiali dell’ultimo secolo e mezzo. Gli operai locali spesso lavorano all’ombra dei mitra di ronde paramilitari. Si parla di lavoro forzato della minoranza Yazida nell’area archeologica di Ninive, una delle capitali dell’impero assiro, occupata dalle milizie del Califfo al Baghdadi.
La tassa sui reperti
A Kalhu il palazzo reale è stato passato al setaccio: i reperti più pregiati venduti direttamente a collezionisti, il resto disperso sul mercato nero del piccolo contrabbando. La regola generale nello stato islamico resta però quella dell’al-Khums, la tassa di un quinto sul valore degli oggetti scavati. Il che fa presupporre una supervisione minuziosa ed efficiente sugli scavi, una valutazione economica sui ritrovamenti, o un primo mercato all’interno del territorio.
Le tappe della filiera
Ma quali sono le tappe successive della filiera? Una parte passerebbe attraverso il poroso confine turco. «L’unico sequestro a cui ho assistito a Kerkemish riguarda tre busti provenienti da Palmira, che è controllata dai governativi», dice Marchetti. Secondo un altro archeologo, Amr al Azm, della Syrian Heritage Task Force, il grande flusso transiterebbe tra Tel Abiab e Urfa. Ancora più trafficata la frontiera con il Libano: files di computer sequestrati all’Isis indicano antichità per 36 milioni di dollari passate per la cittadina di Al Nabk.
sostenitori di isis festeggiano in siria
Un’altra direttrice attraversa le vecchie vie dell’incenso per arrivare agli Stati del Golfo, dove si aggiungono ai tesori archeologici provenienti dall’Afghanistan via Karachi. Altri mercati di smistamento si trovano nell’Est europeo, in Bulgaria e in Romania, dove venivano gestiti dai servizi segreti, a cui si sono sostituite mafie locali. I reperti più preziosi vengono «lavati», dotati di nuove identità ed acquistati da mercanti e collezionisti di Londra, Hong Kong, New York.
Il resto del bottino sul Web
Il bottino meno pregiato viene venduto su siti temporanei nella cosiddetta «deep Internet», non rintracciabili tramite motori di ricerca. Così il passato remoto del globo, insieme a un’enorme quantità di denaro sporco, rischia di rimanere oscuro per lungo tempo.