Fulvio Abbate per Dagospia
Che dire della spettrale afasia del ceto artistico e intellettuale di sinistra davanti alla recente disfatta subita da quest’ultima? Possibile che non abbiano trovato neanche una parola, neppure lo stentato balbettio di chi umanamente mostri terrore davanti all’arrivo dei “barbari”, degli “osceni”, dei “cognati”?
Se non altro, Piergiorgio Odifreddi ha sbattuto la porta andando via da " Repubblica", non prima di avere irriso Scalfari e le intere sacre tavole della presunta superiorità morale di largo Fochetti, spiegando che "la funzione dell'intellettuale è di essere antisociale", non un cortigiano (in questo caso sarebbe meglio dire, non un giornalista), lasciando così i timorati, gli organici, sprangati dentro con Concita De Gregorio, Corrado Augias e lo stesso direttore Calabresi.
Quanto proprio a Concita De Gregorio, nonostante avesse promesso in una pubblica intervista (a Simone Mercurio di Radio Città Futura il 23 febbraio 2018, ne suggerisco la lettura, è reperibile in rete) che non si sarebbe più occupata “né di politica né di Roma”(sic), da qualche tempo, anzi, subito dopo la già menzionata disfatta del PD, proprio lei, ha ridato vita e voce, nero su bianco, sempre su “Repubblica”, alla bella gente di sempre, poco importa che in molti casi si tratti di parole e pronunciamenti che trasudano l’edificante banale cortigianeria di sempre.
D’altronde, si tratta, va da sé, di correre a dimostrare che i “migliori” sono stati ancora una volta penalizzati a favore dei “barbari”. Dietro l’angolo, s’intuisce bene dal tono generale, benché pronunciato a mezza voce, l’appello necessario al ritorno del “Circo Togni” di Walter Veltroni, magari supportato da Carlo Calenda, l’amuleto vivente che il pervicace (soprattutto nel masochismo) popolo di sinistra vede ora come arma segreta, V2 che dalla rampa di lancio dei migliori quartieri di Roma potrebbe ridare soddisfazione a chi ha cuore il rispetto del senso d’ogni limite, d’ogni giusto mezzo, perfino a danno al pensiero, un pensiero dimezzato sempre in nome della costruzione del consenso, ossia dal ritrovato bisogno della “vocazione maggioritaria”, cioè la tomba d’ogni intelligenza critica.
mario calabresi carlo de benedetti
Poco importa che la storia di Carlo Calenda, lo si è già detto, mostri un perfetto spermatozoo d’oro dei Parioli che porta con sé, nell’ordine, come i puntali della regina dei “Tre moschettieri”, Luca Cordero di Montezemolo, Confindustria, Monti, Scelta civica e altre leccornie subculturali per ceti medi riflessivi, e ancora i romanzi, i film e le sceneggiature della madre del prescelto, Cristina Comencini, ergo anche la retorica femminista da terrazza “con prenotazione obbligatoria” ad Ansedonia o magari a Talamone.
il presidente emerito giorgio napolitano (2)
Ancora una volta risuona l’appello alle maiuscole della borghesia “illuminata”, questo perché quando, machiavellicamente, la sinistra sceglie da chi farsi rappresentare si reca alla fonte sociale di tutto, cioè attingendo dal nido dei micetti d’angora della borghesia, era già successo con Togliatti a Napoli nel 1944, e uno di quei frutti avvelenati del conformismo, Giorgio Napolitano, lo subiamo ancora adesso, chi volesse approfondire questo dato storico non ha che da leggere “Mistero napoletano” di Ermanno Rea.
In tutto questo, stupisce l’assai prevedibile silenzio piccato di un animatore dei trascorsi “girotondi per la democrazia”, Nanni Moretti, meraviglia perché sembrerebbe umanamente naturale il momento per spezzare marxianamente le catene d’ogni implicita vicinanza con i mediocri, ma evidentemente, sempre in nome della vocazione maggioritaria, Moretti non vuole ampliare le dimensioni dello stupro subito comunque dai “migliori” da parte di M5S e Lega, realpolitik da assessorato all’annona, se non da società partecipata.
Dunque, la rivolta della bella gente contro il berlusconismo era solo un’opzione di stile? Vergognoso per certo moralismo in camicia di flanella a quadri che un primo ministro potesse innalzare totem indicibili quali Figa, Sorca, Patonza, Fregna? D’altronde, se è vero che Roma è il teatro politico-antropologico di tutto questo, una simile convinta acquiescenza non deve stupire, basterà ricordare che non una voce critica, almeno tra la bella gente, si è mai levata davanti alla nomina di Giovanna Melandri, altra protagonista del “grande circo invalido” veltroniano (prendiamo in prestito quest’immagine da un romanzo di Marco Lodoli, lui che per conto di Matteo Renzi ha dato un nome alla “buona scuola”) al museo MAXXI, lo stesso che dovrebbe avere cura dell’arte contemporanea, non ci sembra però che l’ex ministra abbia lo spessore per distinguere uno Schifano da un Norberto.
In compenso, le solite anime belle, per tramite sempre di Concita De Gregorio, ultimamente hanno modo di dire la loro, penso allo scrittore Maurizio Maggiani, l’autore del “Romanzo della Nazione”, e ho detto tutto, lo stesso che sul palco dell’Eliseo al tempo dell’Ulivo confidava di essere giunto lì per “regalare” il suo voto, e questo perché “dai, io queste elezioni le voglio vincere”, così sotto lo sguardo lieto di Prodi e Veltroni, tra gli applausi della platea in attesa della vittoria o piuttosto di mettere piede a Raitre.
Potranno mai i cortigiani del partito ufficiale dare risposte sullo sfacelo della sinistra? A Concita De Gregorio andrebbe domandato che genere di brillantezza si aspetti da chi sullo schermo ci ha fatto dono di film di implicita propaganda governativa, invocando, in filigrana, la “pazza gioia” per Matteo Renzi, perché appunto così, ora e sempre, pretende il principio della “vocazione maggioritaria”, che nella miseria culturale della sinistra presente ha perfino dettato e imposto un’estetica, una concezione del mondo votata alla moderazione e al conformismo, cominciando dai film dove, nonostante il buio pesto, sembra si voglia affermare che “no, non è mezzanotte, e pure se fosse, in ogni caso, tutto va bene…”. Perché abbiamo il migliore dei governi possibili.
Alla fine, come nella più lisergica copertina dei Clash, sembra di essere in un deserto popolato da scheletri, teschi e avvoltoi, nel nostro caso della mediocrità timorata, del luogo comune e, va da sé, essendo a Roma, del cinismo che deride sempre di chi fa professione di rivolta, mi confortano però le parole ricevute in rete da Stefano Bacchetta, un amico studente lavoratore: “Fulvio, magari fossero i barbari! Li abbiamo dovuti votare per disperazione nella speranza che la disfatta della sinistra avrebbe aperto un dibattito, davanti a noi invece il solito deserto”.
E ancora devo dire grazie a Caterina Nirta, filosofa, che così aggiunge da Londra: “Vogliono convincerci che la realtà sia come in una canzone di Brunori Sas”. E anche questa è vocazione maggioritaria, anche questa è la tomba d’ogni fantasia. Ora che ci penso, devono essere davvero misere le esistenze erotiche degli intellettuali di casa nostra, davanti alla disfatta della loro sinistra non hanno trovato neanche una parola, fosse anche un “Cazzo!” esclamato a piena voce.