METTI UNA SCISSIONE A CENA - CRESCE LA FRONDA DEI SINISTRATI: IN 25 PRONTI A DIRE NO ALLA FIDUCIA SUL JOBS ACT E STASERA LA MINORANZA SI ATTOVAGLIA PER DECIDERE SE ANDAR VIA DAL PD - IL BERSANIANO D’ATTORRE: ‘’LA SCISSIONE SAREBBE UN REGALO A RENZI’’
Carlo Bertini per “la Stampa”
A sinistra nel Pd qualcosa si muove, stasera si vedranno a cena una manciata di bersaniani, Davide Zoggia, Stefano Fassina e altri giovani big di Area Riformista insieme a Gianni Cuperlo, per discutere come riorganizzarsi dopo quello che è successo e come risolvere il problema della scissione. Sì, perché al punto in cui si sono messe le cose, la scissione dal Pd renziano è diventato un vero problema di tutta la minoranza. Riassumibile però, almeno per ora, con il classico “vorrei ma non posso”.
Ieri all’ora di pranzo mancava solo il nome del locale, ancora da scegliere: dei partecipanti, un numero ristretto, alcuni dovevano ancora essere avvertiti. Al tramonto, lo scissionista per antonomasia, Pippo Civati, sosteneva di non saperne nulla. «In verità, io domani dovrei andare a cena con Filippo Taddei ma credo di non farcela perché ho un altro impegno. A me non mi hanno chiamato, ma è vero, mi risulta che stanno organizzando qualcosa...».
Ore 13, sugli scalini dell’androne di Montecitorio, Davide Zoggia, ex responsabile Enti locali della «ditta» di Bersani, non solo svela che se non verrà cambiata la legge delega, in base ai suoi «calcoli» ci sarebbero «25 o 30 di noi pronti a non votare il jobs act neanche con la fiducia, ma questo non vorrebbe dire far cadere il governo che avrebbe comunque i numeri per farcela»; ma ammette che il tema della scissione agita gli animi della base in giro per l’Italia più di quanto sia percepito dall’osservatorio della capitale.
«Domani sera ci vediamo a cena in pochi, poi magari il tema sarà discusso anche in contesti più allargati. Dopo quanto successo sabato e domenica dobbiamo fare una riflessione. Ma quella sulla creazione di un nuovo partito è complessa, perché se la spinta dal territorio è forte, costruire oggi un’altra formazione non è semplice, anzi».
Ad ostacolare qualsiasi progetto non solo è la mancanza di un leader forte ma anche «il dna di molti di noi che non è quello della vocazione minoritaria». Le analisi mostrano come vi sia spazio per una forza «con un range che va dal 5 al 10%» ma il punto di approdo ineluttabile sarebbe alla fine «allearsi sempre con il Pd», insomma con la forza da cui si prenderebbe il largo.
Se quelli che sono andati in piazza si son sentiti chiedere da molti come si faccia a restare in un partito in cui non si riconoscono, a mostrarsi contrario a uscire è Gianni Cuperlo. «Non si tiene unito un partito denigrando, ma scissione è un termine che non voglio nemmeno evocare», dice al GrRai. E il fatto che nella cena di stasera non siano coinvolte personalità come Bersani non deve stupire.
Il suo braccio destro Alfredo D’Attorre nega di esser a conoscenza dell’incontro di stasera e sostiene che in realtà le cose stanno diversamente. «La scissione sarebbe un regalo a Renzi. Una dirigente della Cgil sabato in piazza ci diceva che il mondo del lavoro chiede di stare al centro di un grande partito, non confinato in una cosa che preservi la sua purezza relegandosi però in un angolo».
Altra cosa è invece «la spinta ad un coordinamento più forte delle varie aree della minoranza e proveremo a farlo su tre temi, lavoro, legge di stabilità e riforme istituzionali». Come? «Dando un segno di unità, prendendo insieme delle iniziative ma sempre dentro il partito, perché il problema vero è ridare una motivazione ai nostri per rinnovare l’iscrizione al Pd, la prospettiva di una battaglia, ma da dentro».
Chi si adombra, forse diviso tra istinto e razionalità, è Stefano Fassina, «è vero, ci vediamo, però non discuteremo di contenitori, bensì di come costruire una posizione unitaria sempre dentro il Pd». A non voler sentire parlare di scissione è l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, «chi vuole la scissione non venga a cercare me», intimava ieri a Omnibus.
E qualcosa si muove anche dalle parti di Renzi, se è vero che la madre di tutte le battaglie, il jobs act, potrebbe registrare una svolta imprevista. «Matteo vuole correre e portarlo in aula l’11 novembre, prima della legge di stabilità», confida uno dei big di Montecitorio, «loro frenano, ma qualcosa concederemo. Potremmo recepire nella delega la sostanza di quanto votato in Direzione sull’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari». Si vedrà se Renzi darà il via libera.