Maurizio Ricci per “la Repubblica”
I politici possono dire quello che vogliono. E anche i cittadini qualunque, al bar o in tram. Ma gli economisti non hanno dubbi: le dimensioni del fenomeno sono troppo grandi per liquidarle con gli aneddoti sui due ragazzi di colore fermi a non far niente sul marciapiede o sulle famiglia araba nell’alloggio di edilizia popolare.
Sulla base dei grandi numeri, dunque, gli economisti concludono che gli immigrati che si rovesciano a ondate sulle frontiere europee non sono il problema. Sono la soluzione del problema. Bisogna trovare il modo di sistemarli e di integrarli: un compito inedito, immane, per il quale non ci sono soluzioni facili. Ma le centinaia di migliaia di uomini e donne, giovani, fra i 20 e i 40 anni, spesso con figli al seguito, che si affollano sulle barche, sui treni, sui camion dei disperati sono quello di cui l’Europa ha bisogno. Subito.
Quando Angela Merkel apre le porte della Germania a 800 mila rifugiati, infatti, non spara troppo alto. Spara basso. Facendo un calcolo a spanne, Leonid Bershidsky, su Bloomberg, calcola che l’Europa avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi europei entro il 2020. Cioè domani. E di oltre 250 milioni di europei in più nel 2060. Chi li fa, tutti questi bambini?
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I 42 milioni di europei in più sono, infatti, quelli che servirebbero, subito, per tenere in equilibrio una cosa a cui - nonostante quello che hanno affermato in questi giorni leader politici, come l’ungherese Viktor Orbàn - gli europei qualunque tengono, probabilmente, più che alle loro radici cristiane: il generoso sistema pensionistico. Oggi, in media, dice un rapporto della Ue, in Europa ci sono quattro persone in età lavorativa (15-64 anni) per ogni pensionato.
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Nel 2050, ce ne saranno solo due. Ancora meno in Germania: quasi 24 milioni di pensionati contro poco più di 41 milioni di adulti. In Spagna: 15 milioni di over 65 a carico di soli 24,4 milioni di lavoratori. In Italia: 20 milioni ad aspettare ogni mese, nel 2050, l’assegno dell’Inps, finanziato dai contributi di meno di 38 milioni di persone in età per lavorare. Le soluzioni non sono molte. O si tagliano le pensioni, o si aumentano i contributi in busta paga o si trova il modo di aumentare il numero di persone che pagano i contributi.
Sarà un paradosso, ma è più facile che, a pagare quei contributi, sia un immigrato, piuttosto che un cittadino italiano. Oggi, la percentuale degli italiani che lavora e porta a casa soldi è pari al 67 per cento della popolazione. Fra chi è venuto qui dall’Asia o dall’Africa, la percentuale è del 72 per cento. Perché ha tolto il posto di lavoro a un italiano?
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Non parrebbe. Secondo l’Ocse - l’organizzazione che raccoglie i paesi ricchi del mondo - circa il 15 per cento dei posti di lavoro nei settori ad alto sviluppo è stato occupato da un immigrato. In altre parole, dove la concorrenza per il posto è forte, c’è un immigrato ogni 6-7 lavoratori. Nei settori in declino, invece, incontrare un immigrato è quasi due volte più facile: oltre un addetto su quattro non è nato in Italia.
Detto più semplicemente, gli immigrati tendono ad occupare i posti di lavoro che chi è nato in Occidente preferisce abbandonare. Su quei lavori, pagano le tasse. Senza gli immigrati, il governo Renzi sarebbe, in questo momento, disperatamente alla caccia di quasi 7 miliardi di euro per tappare i buchi della legge di Stabilità.
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Gli stranieri hanno pagato, infatti, circa 6,8 miliardi di euro di Irpef nel 2014, su redditi dichiarati per oltre 45 miliardi di euro l’anno. La Fondazione Leone Moressa ha calcolato il rapporto costi-benefici dell’immigrazione è, per l’Italia, largamente positivo: le tasse pagate dagli stranieri (fra fisco e contributi previdenziali) superano i benefici che ricevono dal welfare nazionale per quasi 4 miliardi di euro.
Più o meno, è quanto dicono i dati degli altri paesi europei. L’immigrazione deve essere inserita nella colonna dei più: in media, l’apporto netto all’economia, da parte di chi è giunto in Europa in questi anni, vale, secondo i calcoli dell’Ocse, lo 0,3 per cento del Pil, il prodotto interno lordo, ovvero la ricchezza creata in un anno nel paese. Se si tolgono le pensioni pagate agli stranieri residenti, l’apporto positivo supera lo 0,5 per cento del Pil.
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Era vero quando, negli anni scorsi, l’immigrazione era frutto di movimenti all’interno dell’Europa. Ed è vero anche oggi, che hanno assunto preminenza i flussi extraeuropei.
«Il contributo degli immigrati all’economia è superiore a quanto essi ricevono a titolo di prestazioni sociali o di spesa pubblica » riassume Jean-Cristophe Dumont che guida il dipartimento dell’Ocse che si occupa specificamente di immigrazione e che ha studiato gli ultimi dati. La realtà si è incaricata di sgonfiare molte polemiche degli ultimi anni, a cominciare da quella sull’idraulico polacco che, sull’onda dell’allargamento dell’Unione, nel 2004, sarebbe stato pronto a sbarcare nei paesi della Ue a togliere lavoro ai suoi colleghi.
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L’Ocse ha studiato da vicino il caso dell’Inghilterra dove, negli anni immediatamente successivi al 2004, sono arrivati, in effetti, un milione di immigrati dai paesi est europei, Polonia in testa. Ma, secondo Dumont, queste centinaia di migliaia di immigrati «non hanno né aumentato il tasso di disoccupazione, né abbassato il livello medio dei salari».
Difficile che un idraulico siriano, oggi, cambi quello che non ha cambiato, ieri, l’idraulico polacco.
Piuttosto, ciò che colpisce, nelle cifre sull’immigrazione, è la loro esiguità. L’impressione di un’Europa scossa e sommersa da uno tsunami migratorio è frutto di un’allucinazione. In tutto, gli immigrati oggi presenti in Europa sono pari al 7 per cento della popolazione. Gli arrivi incidono positivamente sull’economia, ma per non più di qualche decimale. Il fisco ci guadagna: uno straniero in Lombardia dichiara più di un italiano in Calabria. Ma l’Irpef complessiva degli immigrati non arriva al 5 per cento del totale delle relative entrate.
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Anche le spese, nonostante le polemiche, sono ridotte. In media, nei paesi ricchi dell’Ocse, gli immigrati assorbono il 2 per cento dei fondi per l’assistenza sociale, l’1,3 per cento dei sussidi di disoccupazione, lo 0,8 per cento delle pensioni. L’Italia è in linea. Anzi sulle pensioni (pochi gli immigrati che, nel nostro paese, ci sono arrivati) la spesa per gli stranieri è dello 0,2 per cento. Piano a dire, dunque, che la Merkel è stata accecata dalla generosità. Gli 800 mila rifugiati che è pronta ad accogliere sono meno del milione di polacchi che ha assorbito l’Inghilterra di Blair e non creeranno, probabilmente, più sconquassi.
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