Guido Santevecchi per il ''Corriere della Sera''
La riunificazione tra Taiwan e la Cina «è inevitabile, è una grande tendenza della Storia». Così ha detto Xi Jinping nel suo primo discorso incentrato su quelle che Pechino definisce «le relazioni attraverso lo Stretto», il braccio di mare largo 160 chilometri che separa il continente cinese dall' isola democratica e «ribelle». Taiwan è «parte della politica interna della Cina», quindi ogni «interferenza straniera è intollerabile», ha spiegato il segretario del Partito comunista cinese, nonché presidente della Repubblica popolare e capo della Commissione militare centrale.
E come comandante in capo dell' Esercito popolare di liberazione Xi ha fatto un accenno ambiguo all' uso della potenza militare per risolvere la questione. Il suo discorso, pronunciato ieri nella Grande sala del popolo di Pechino, celebrava il quarantennale del «Messaggio ai compatrioti di Taiwan»: nel 1979 la Cina di Deng Xiaoping annunciò la sospensione dei bombardamenti sugli avamposti nazionalisti nello Stretto e avviò il dialogo. Pechino è sempre disponibile a costituire le basi per una riunificazione pacifica, ha detto Xi, ha proposto di avviare una «consultazione democratica», e questa è sembrata un' apertura. Ma non ha lasciato dubbi sulla determinazione a raggiungere comunque l' obiettivo senza «lasciare spazio per alcuna forma di attività indipendentista e separatista di Taiwan».
E qui è arrivato il passaggio più duro del nuovo messaggio: «Non facciamo alcuna promessa di rinunciare all' impiego della forza, manteniamo l' opzione di ricorrere a ogni misura necessaria», di fronte a un intervento esterno o a strappi indipendentisti.
Un' ondata di applausi ha salutato questo doppio monito di Xi: agli Usa, che nell' era di Donald Trump hanno lanciato segnali di sostegno politico-militare all' isola e alla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, che viene dal partito separatista e nel suo discorso di Capodanno ha ribadito la determinazione a mantenere vivo l' auto-governo.
«Chiedo alla Cina di rispettare la libertà e la democrazia di un popolo di 23 milioni di anime e di guardare alla realtà della Repubblica di Cina che esiste a Taiwan», ha detto la signora Tsai usando il nome formale dell' isola.
Xi risponde che «i cinesi non attaccano i cinesi» (a meno che non siano cinesi separatisti) e lancia la sua offerta: «La proprietà privata, le fedi religiose e i legittimi diritti dei compatrioti taiwanesi saranno preservati» dopo il rientro nella Madrepatria secondo la formula «Una Cina Due Sistemi», come per Hong Kong. Ma ha aggiunto che sistemi politici differenti «non possono servire da scusa per ambizioni separatiste». La sua visione non contempla un rifiuto, non c' è un Piano B diverso dalla riunificazione inevitabile. In questa durezza si può leggere il nervosismo e la preoccupazione del Partito comunista di fronte al successo consolidato della democrazia a Taiwan.
Xi conclude che la risoluzione della questione non può essere più lasciata alle generazioni future, come è stato fatto per settant' anni dal dicembre 1949, quando il nazionalista Chiang Kai-shek, sconfitto nella guerra civile dalle forze rivoluzionarie di Mao Zedong, si arroccò nell' isola. Da allora Taiwan si è autogovernata, evolvendosi da dittatura sotto legge marziale in democrazia matura, oltre che potenza economica.
Ma l' isola è sempre più sola: oggi solo 17 nazioni la riconoscono come «Repubblica di Cina», gli altri hanno chiuso le ambasciate a Taipei mantenendo uffici di collegamento commerciale e culturale (una forma ambigua adottata per primi dagli Usa nel 1979); l' unico Stato di peso ad avere relazioni piene è il Vaticano, impegnato però in un lungo riavvicinamento con Pechino.
Quando dice che la questione taiwanese non può essere passata senza soluzione alla prossima generazione di leader, Xi rivela il suo obiettivo: vuole essere lui il grande riunificatore. Ha ancora diversi anni per compiere la missione, perché ha fatto cambiare la Costituzione per essere presidente senza limiti di tempo.