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DAL NOSTRO OSTAGGIO SPECIALE, JOHN CANTLIE - NEL NUOVO VIDEO DELL’ISIS, IL POVERO GIORNALISTA INGLESE È COSTRETTO A INFORMARCI DELLA (FINTA) “CADUTA” DI KOBANE - IL VIDEO SERVE PER ARRUOLARE NUOVI JIHADISTI OCCIDENTALI (VIDEO)
VIDEO DI JOHN CANTLIE
1. “COSÌ L’IS VINCE A KOBANE” IL REPORTAGE DELL’OSTAGGIO ULTIMA VIOLENZA JIHADISTA
da “la Repubblica”
Il nuovo video diffuso dal “dipartimento media” del blasfemo quanto ipertecnologico Stato islamico (Is) ha il volto e la voce narrante di John Cantlie, l’ex giornalista britannico da due anni ostaggio dell’Is, nei panni neri dell’anchorman del “califfato” e costretto a un resoconto dei combattimenti dalla città siriana di Kobane - così l’Is vorrebbe far credere.
john cantlie nel video pro isis 5
Della durata di 5 minuti e 32, con scene iniziali della città - di una città non subito identificabile - riprese da un drone, il filmato “annuncia” all’Occidente la “caduta” di Kobane e «l’inutile farsa della resistenza dei curdi di cui favoleggia la stampa» occidentale. «Qui non vedo altri giornalisti», legge Cantlie.
In realtà, in nessuna inquadratura spicca la bandiera nera dell’Is a dimostrare la conquista di parti della città. Nel testo preparato per Cantlie, i jihadisti ammettono che i raid alleati li hanno costretti a rinunciare a carri armati e armi pesanti, e a combattere casa per casa.
Stando alla Cnn, il video risale a 10 giorni fa. L’intento sarebbe quello di reclutare altri jihadisti occidentali. È un esercizio di fine tecnologia, ma di disperata propaganda se è vero che dopo 43 giorni, curde e curdi male armati continuano a respingere l’Is. Cantlie, se davvero era a Kobane, è sopravvissuto: portato dove infuria la guerra, dove l’Is manda gli stranieri a far da “carne da cannone”.
john cantlie nel video pro isis
2. NEL SERIAL TV DEL TERRORE LA GROTTESCA MASCHERA SOTTO L’INCUBO DELLA LAMA
Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
Con l’ombra della scimitarra sul collo, dalla fogna della propaganda jihadista emerge ora la figura grottesca e inedita del “Nostro terrorista speciale”, l’ostaggio costretto a fingersi inviato di guerra per salvarsi la testa.
Con il video dell’ex giornalista inglese John Cantlie girato — forse — nella città contesa di Kobane fra la Siria e la Turchia, la tecnica della propaganda raggiunge un livello che neppure Goebbels, Suslov o Starace avrebbero mai osato immaginare: utilizzare un prigioniero che vive ogni secondo della propria vita a un passo dalla lama che lo potrebbe sgozzare per fargli sceneggiare un reportage giornalistico.
Quando John Cantlie, al quale nessuno può chiedere di essere un martire essendo il martirio ancora facoltativo, recita diligentemente il copione scritto dai suoi aguzzini e vuole spiegare che Kobane è ormai «completamente nelle mani dell’Is», che «l’Is ha vinto», che «sulla città regna il silenzio, prova che i jet americani non stanno più bombardando» dovrebbe convincere il pubblico occidentale e anglofono a unirsi alla empia guerra. Un video spot di reclutamento, quindi.
john cantlie nel video pro isis 4
Lo hanno spogliato della tuta arancione, il costume indossato per scimmiottare l’abbigliamento dei prigionieri di Guantanamo nei suoi quattro videoclip e riservato agli agnelli sacrificali per la decapitazione. Lo hanno vestito con una tunica nera, vagamente clericale, sotto una barba più lunga e incolta, per segnalare una probabile conversione all’Islam.
E gli fanno dire frasi di agghiacciante idiozia come il «non vedrete nessun giornalista occidentale qui attorno, perché loro stanno lontani e mentono». O forse perché il suicidio e la consegna nelle mani degli sgozza innocenti non sono previsti neppure dal più esigente degli editori.
Siamo ben oltre le patetiche confessioni dei prigionieri di guerra che spesso, come facevano in nord vietnamiti con i piloti americani abbattuti, belavano la denuncia della nazione per la quale avevano combattuto, spesso in cambio di qualche ciotola di riso in più o di qualche ora di tortura in meno.
john cantlie nel video pro isis
Nelle comparsate di quei piloti ingabbiati nell’Hanoi Hilton c’era almeno la speranza che la finta confessione dimostrasse ai famigliari che essi erano ancora vivi e che l’avere mostrato il proprio volto in pubblico rendesse i carcerieri più esitanti a ucciderli.
Cantlie, nel suo disperato “pezzo” dall’interno della propria fine, ben filmato, ben illuminato e girato chissà quando — si direbbe con uno smartphone dotato di HD — fa immaginare un ebreo internato ad Auschwitz che avesse dovuto fare un filmino per spiegare che i campi di sterminio erano propaganda, che Hitler stava vincendo la guerra, che il pubblico americano o europeo era vittima della propaganda. O un Solzgenitsyn che dalla Kolyma scrivesse novelle apologetiche sui successi del Gulag staliniano.
Può essere, naturalmente, che l’ex giornalista inglese sia anche caduto preda della
classica “Sindrome di Stoccolma”, la distorsione psicologica che spinge gli ostaggi, dopo lunga prigionia e shock da terrore, a solidarizzare con i propri carcerieri.
E se nessuna guerra, in nessuna epoca e in nessun luogo è mai innocente di propaganda, di montature e di bugie, la disumanità di questi criminali, insieme barbari nella cultura e sofisticati nell’uso dei nuovi media e della Rete, è forse più oscena nella recitazione di Cantlie che nella macellazione delle vittime.
john cantlie nel video pro isis 3
Piegare il collo di un uomo sotto la spada è facile, per chi ha la forza e la brutalità per farlo. Piegare lo spirito di una persona è anche più umiliante e disumano della violenza fisica, perché non toglie la vita, ma lo spirito della vittima.
Nessuno spettatore di buon senso potrebbe accettare e prendere sul serio il reportage del “nostro terrorista speciale”, sapendo in quale situazione egli si trovi e noi italiani meno giovani ricordiamo bene l’angoscia e il tormento prodotti dai messaggi di un’altra vittima innocente che perse la propria vita fra le grinfie di altri criminali, Aldo Moro. Ma non è certamente a noi, alle persone razionali, a chi non sia accecato da odi privati o da intossicazioni ideologico- religiose, che lui si rivolge.
Egli parla a coloro che sono già a priori convinti che l’Is sia portatore di istanze legittime, di pulsioni irredentiste, addirittura resistenziali, meritevoli di riconoscimento politico e dunque sono disposti ad accettare che un povero cristo al guinzaglio dei suoi potenziali assassini sia libero di fare resoconti e cronache.
Non dobbiamo giudicare Cantlie, perché non sappiamo come noi, altri giornalisti, ci comporteremmo nella stessa situazione. Possiamo soltanto sperare che il servizio da Kobane sia piaciuto al suo signor direttore. Perché non un cazziatone o il licenziamento, rischia, se non è piaciuto al capo, ma una lama in gola.