Francesco De Dominicis per "Libero Quotidiano"
Il divario tra il premier, Giuseppe Conte, e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, cresce giorno dopo giorno. La comune provenienza accademica non sembra avere alcuna incidenza nello spread che si sta ampliando plasticamente, da quando si è insediato il governo, tra l' inquilino di Palazzo Chigi e il numero uno di via Venti Settembre. Questione di esperienza e non solo. Con Conte politicamente impalpabile, spinto nell'angolo dai suoi vice (il pentastellato Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini), Tria sta facendo venir fuori un carattere da cavallo di razza.
Non è un caso che il ministro sia apprezzato dal capo della Bce: a Mario Draghi piace il suo equilibrio e soprattutto la sua visione europeista che vuole l' Italia saldamente nell'area euro. Sulla poltrona che fu di Quintino Sella, lo ha voluto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E, se necessario, il titolare dell'Economia mostra i muscoli. È andata così, nei giorni scorsi, a Bruxelles, quando ha costretto i colleghi dell'Unione europea a rinviare a dicembre la discussione sulle misure finanziarie più delicate: Germania e Francia hanno accettato il diktat del nostro Paese.
Lo stesso temperamento sta emergendo in queste ore, mentre il ministro (come ha scritto ieri Franco Bechis) si accinge a nominare il nuovo direttore generale del Tesoro, l' alto dirigente Alessandro Rivera. Su questo dossier Tria si sta imponendo sui mal di pancia registrati fra gli esponenti della maggioranza. Così come ha rimandato a data da destinarsi la riforma fiscale con la flat tax.
Ma c' è un' altra nomina, sulla quale è stato posto il veto, che ha cristallizzato la capacità del professore di Tor Vergata di far capire chi comanda da quelle parti. La nomina, secondo quanto raccontato nei corridoi del ministero, l'aveva proposta il sottosegretario dei Cinque Stelle Alessio Villarosa. Il quale, forse affascinato dalle tesi complottiste (un po' come tutta la base radicale del Movimento), voleva al suo fianco, in qualità di consigliere, il magistrato Michele Ruggiero. Ma «non possiamo metterci contro pure le agenzie di rating» avrebbe detto il ministro motivando il suo «no».
Ruggiero è un personaggio assai scomodo, agli occhi degli osservatori internazionali, per stare seduto a via Venti Settembre: è il pubblico ministero di Trani che ha condotto la maxi indagine contro le agenzie di rating. Il piemme pugliese era convinto che manager e analisti di Standard & Poor' s il 13 gennaio 2012 avessero declassato, sulla base di dati falsi del maggio 2011, il voto sul debito pubblico dell'Italia di due gradini (da A a BBB+).
IL PM DI TRANI MICHELE RUGGIERO
Decisione - va detto - assai discutibile, che contribuì a mettere in ginocchio il nostro Paese con Berlusconi costretto alle dimissioni e il contestuale, brusco insediamento del governo tecnico di Mario Monti. In ogni caso, la faccenda si è risolta con una assoluzione (arrivata il 30 marzo 2017), sia per i quattro analisi accusati di aver diffuso informazioni non vere sia per il presidente mondiale di S&P, Deven Sharma.
La sentenza, tuttavia, ha lasciato l' amaro in bocca a Ruggiero e non ha spazzato via tutti i dubbi sul comportamento dei signori del debito. Nelle motivazioni c' è scritto che il processo ha «confermato il sospetto che tutti gli interventi di S&P nei confronti dell'Italia» siano stati «connotati da sicuro pregiudizio verso l' Italia».
Il pregiudizio - secondo il Tribunale - è stato riferito nel corso del processo «da esponenti qualificati del Tesoro e di Consob» perché tutti gli interventi di S&P - dal taglio dell'outlook del 21 maggio 2011 al doppio declassamento del 13 gennaio 2012 - «sono stati adottati in arco temporale ristretto, con valutazioni diverse da quelle delle altre agenzie di rating e dopo che era stato risolto il rapporto contrattuale di S&P con l' Italia». Parole che per Ruggiero rappresentano una stella da appuntarsi al petto. Per Tria, invece, un buon motivo per non farlo entrare al Tesoro.