Aldo Grasso per il “Corriere della Sera”
Per risolvere alla radice i problemi della Rai bisognerebbe privatizzarla e smetterla con le lagne della «più grande azienda culturale del Paese», della sua missione di informare, divertire, educare. È finita quell’epoca, è pura nostalgia. Questa provocazione ha il solo scopo di rammentare in quale palude politica, legislativa ed editoriale si trovi Viale Mazzini, e non da ora.
Perciò va riconosciuto al governo Renzi di aver ieri avviato l’«esame Rai» (la discussione continuerà nel prossimo Consiglio dei ministri), di aver trovato il coraggio di voler mettere mano a una materia che scotta e a un’azienda che giorno dopo giorno sta perdendo fisionomia, capacità realizzativa, funzione sociale. Da tempo, la Rai è solo bottino di guerra dei partiti e la sua capacità di incidere sull’identità nazionale è quasi del tutto svanita e, spiace dirlo, programmi interessanti se ne vedono sempre meno.
Se pensiamo che la democrazia conti ancora qualcosa, e se questo significa che i cittadini debbano essere ancora connessi a una qualche «sfera pubblica» attraverso i media «generalisti», allora è difficile, pur consapevoli di tutte le sue debolezze, mettere completamente da parte il modello del servizio pubblico. Per questo, prima di ogni iniziativa sarebbe stato opportuno chiarirsi cosa significhi oggi «servizio pubblico», sfilando la discussione da ogni retorica aziendale o dalla burocratica ideologia degli organismi europei.
Dalle prime informazioni sulla riforma Rai, c’è qualcosa che non torna. Giusta l’idea di un amministratore delegato con pieni poteri, di una guida manageriale vera, come quella di un «grande player internazionale». Era ora. Difficile trovare il grimaldello legislativo per nominarlo (se lo nomina il governo torniamo agli anni pre-riforma, 1975, se lo nomina il Parlamento siamo punto a capo), bisognerà inventarsi un solido espediente.
La strada maestra rimane quella di Bbc, la tv pubblica inglese, che dipende da un trust indipendente. Ma, come per le authority, quanto ci metterebbe nel nostro Paese un’ipotetica struttura similare a risentire delle correnti e dei partiti, sia pure in forma indiretta? Così come appare un po’ bizzarra l’idea di un cda di «specialisti» (uno per ogni settore) nominati dal governo e dalle Camere.
Ei Towers lancia opa su Raiway
Giusta l’intenzione di semplificare i processi decisionali, di identificare con chiarezza responsabilità e ruoli, di separare gestione e controllo (in azienda ci sono migliaia di regole che asfissiano ogni produzione). Giusta la volontà di ridimensionare il ruolo della Commissione di vigilanza riportandola a una funzione di watchdog (cane da guardia).
La parte meno convincente, però, è quella editoriale.
Intanto bisogna chiarire che la Rai non ha tre canali, ma 15, ed è su quella misura che bisogna ragionare. La ristrutturazione degli obiettivi e delle linee editoriali delle tre reti generaliste, differenziate e specializzate, ragiona lungo criteri ancora analogici, smentiti ogni giorno dalle pratiche di visione di spettatori che si muovono in un panorama ben più complesso.
La Rai opera su vari gradi della filiera, dalla produzione (di fiction e news) all’emissione di Rai Way; ancora, si intreccia al di là della tv con altri media, dalla radio sempre dimenticata al web e al digitale, in un sistema pienamente convergente. Una riorganizzazione profonda non può non tenerne conto.
O prendiamo il caso della rete senza pubblicità, una Raitre culturale e di «solo» servizio pubblico: come dimostrano simili recenti esperienze francesi e spagnole, in un attimo la rimozione degli spot può diventare uno strumento punitivo, una condanna alla ghettizzazione. E poi cosa vuol dire «culturale», o cosa si intende per «linguaggi innovativi»? Un bel varietà di Fiorello non è cultura? Al di là delle regole, un Servizio pubblico è fatto di contenuti, di immaginari, di creatività. Tutti elementi di cui nessuno si occupa, nell’illusione che in Rai esistano ancora.