"SAPEVO CHE AVREBBERO UCCISO IL PAPA" - PARLA GIUSEPPE PEDULLÀ, CHE FU AVVERTITO DA UN ARCIVESCOVO DI UN COMPLOTTO CONTRO LA VITA DI ALBINO LUCIANI, GIOVANNI PAOLO I: "DEVO TOGLIERMI QUESTO PESO PRIMA DI MORIRE"
Stefano Lorenzetto per “Il Giornale”
Non vuole portarsi il segreto nella tomba: «Avrei potuto salvare la vita a Papa Giovanni Paolo I. Non l’ho fatto. E oggi non riesco a perdonarmelo. A qualcuno devo pur dirlo». Giuseppe Pedullà compirà 83 anni il 20 giugno. A guardarlo, viene da pensare che camperà oltre i 100. Ma lo scrupolo di coscienza è giustificato dal peso che si porta sulle spalle.
È un macigno enorme, che lo opprime, che lo schiaccia, che non lo fa dormire da quel martedì 26 settembre 1978, quando si rifiutò di consegnare in Vaticano una lettera che il frate francescano Pacifico Maria Luigi Perantoni, arcivescovo emerito di Lanciano e Ortona, voleva far giungere direttamente nelle mani del comune amico Albino Luciani, da appena un mese salito al soglio di Pietro, per avvisarlo che era in pericolo di vita.
«Ignoro come Perantoni fosse giunto al convincimento che qualcuno intendesse uccidere il Papa. So soltanto che, nel momento in cui gli dissi che non me la sentivo di farmi latore di un messaggio così spaventoso, egli mi rimproverò stizzito: “Te ne pentirai!”. Oh, se me ne sono pentito! Tre giorni dopo il Santo Padre era già morto». La voce gli si smorza in gola, fino a diventare un pianto sommesso.
Pedullà, originario di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), abita a Piacenza d’Adige, nella Bassa padovana, in un appartamento trasformato in sacrario. Il salotto è dominato da un ritratto di Luciani assiso sul trono papale. Ma già dall’ingresso si percepisce che questo è un luogo speciale.
albino luciani papa giovanni paolo i
Ai muri sono appesi vari reperti: il dagherrotipo di un austero Giovanni Luciani, padre del futuro pontefice, in posa con il bastone da passeggio, il panciotto, la camicia dal colletto diplomatico, la Lavallière, la lobbia; immagini della sorella del «Papa del sorriso», scattate dal padrone di casa, e del patriarca di Venezia con Paolo VI durante la storica visita in laguna del 1972, quando Giovanni Battista Montini gli pose sulle spalle la stola, quasi a indicarlo come proprio successore; istantanee di Pedullà con padre Pio da Pietrelcina e sulla tomba di Giovanni Paolo I nelle Grotte vaticane; infine 54 foto delle stimmate e delle ferite che piagavano mani, polsi, ginocchia e gambe di Natuzza Evolo («frequentavo la mistica», spiega il conterraneo calabrese), deceduta nel 2009, nelle quali il sangue disegna la croce, il volto di Cristo e la sigla JHS, Jesus Hominum Salvator.
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È uno squilibrato, un fanatico, un visionario, Giuseppe Pedullà? Catone Sbardellini, ex sindaco dc di Villabartolomea, 20 chilometri da qui, che conosco da più di 30 anni e che lo ebbe come cliente all’ingrosso della sua Caver (cappelli di paglia), testimonia che no, non è né un pazzo né un mitomane, semmai un uomo semplice e pio, molto perbene, che si è trovato al centro di vicende assai più grandi di lui. E mi assicura che sono vere tutte le conoscenze accumulate dall’anziano in ambito ecclesiastico.
E non solo nelle alte sfere curiali, aggiungo io: Pedullà indossa una cravatta recante sul retro l’etichetta «E. Marinella per Silvio Berlusconi» e, fra i molti trofei casalinghi, vanta un astuccio contenente l’orologio, con scudetto tricolore e firma dell’allora presidente del Consiglio, che il Cavaliere fece produrre in tiratura limitata per il vertice Nato-Russia del 28 maggio 2002 a Roma, «ma non l’ho mai indossato perché detesto Vladimir Putin, ha perseguitato i cristiani», chiarisce, facendosi sopraffare da uno dei tanti singulti che scandiranno l’intervista.
Ho rivolto la domanda in modo brutale al diretto interessato: è mai stato in cura per problemi psichiatrici? Avrei voluto anche chiedergli se fosse in grado di esibire un certificato di salute mentale. Non ve n’è stato bisogno. Ha reagito con estrema serenità. È sceso in strada a recuperare dall’auto il referto con cui lo scorso 9 aprile, alle 10.36, è stato accettato al polo ospedaliero di Schiavonia d’Este dell’Ulss 17. «Mi ci hanno portato con l’ambulanza del 118 perché quella mattina mi ero alzato dal letto con forti giramenti di testa».
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Quattro ore dopo è tornato a casa sulle proprie gambe con un’unica terapia: due compresse di Arlevertan, un farmaco contro le sindromi vertiginose, per 20 giorni. Dopo cinque aveva già smesso di prenderle. «Quadro neurologico normale», ha attestato la dottoressa Annalisa Donà. «Tac cerebrale ed esami bioumorali nella norma», ha concordato il suo collega Filippo Ometto. Nemmeno un valore fuori posto nelle analisi ematochimiche. Sano di mente e di corpo. Tanto che gli hanno rinnovato la patente ed è ancora capace di scendere in Calabria guidando senza soste per 1.120 chilometri.
Volendo sgravarsi almeno un po’ del suo insopportabile fardello, Pedullà ebbe tre incontri con Edoardo Luciani, il fratello del pontefice morto in circostanze misteriose dopo appena 33 giorni di regno, e parecchi altri con Antonia, la sorella più giovane, detta Nina, della quale finì per diventare amico.
«Se ne sono andati entrambi, lui nel 2008 e lei nel 2009. Antonia abitava a Levico. Approfittavo delle cure termali per passare lunghi periodi nella località del Trentino. Era un pretesto per stare con lei. Mi mettevo ai fornelli e cucinavo a casa sua. Mi donò questi oggetti appartenuti ad Albino», e mostra due cappelli a busta di astrakan, sei paia di occhiali e due vecchi libri di scuola recanti il cognome «Luciani» scritto con la stilografica dal futuro papa sulla carta velina che fodera le copertine.
«Sono rimasto in contatto con il figlio Roberto, professore, che vive ancora a Levico. L’altra figlia, Lina, abita a Roma. Infatti fu la prima della famiglia ad accorrere nel Palazzo Apostolico e a vedere il cadavere dello zio pontefice adagiato nel letto. Qualche anno dopo venne assunta presso la Sala stampa della Santa Sede».
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Il trait d’union fra Pedullà e il cardinale Luciani fu monsignor Perantoni, nato nel 1895 a Cavalcaselle (Verona) da umili contadini, entrato a 15 anni nell’Ordine dei frati minori (del quale fu ministro generale dal 1945 al 1951), ordinato prete nel 1920 e consacrato vescovo nel 1952, quando gli venne affidata la diocesi di Gerace. Trascorso un decennio, il frate fu nominato arcivescovo di Lanciano e Ortona.
Nel 1970, quasi alla fine del mandato, dispose una ricognizione medico-scientifica sulle reliquie del miracolo eucaristico di Lanciano, avvenuto nel secolo VIII sotto gli occhi di un monaco dubbioso, che vide l’ostia consacrata e il vino nel calice da messa trasformarsi in carne e sangue. Il professor Odoardo Linoli, docente di anatomia e istologia patologica, primario degli Ospedali riuniti di Arezzo, concluse che «il sangue è vero sangue e la carne è vera carne, costituita da tessuto muscolare del cuore; che il sangue e la carne appartengono alla specie umana; che il sangue e la carne appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB e ciò sta ad indicare la unicità della persona».
Come conobbe Perantoni?
«In Calabria facevo parte di un gruppetto di fedeli che lo seguivano ovunque andasse, fra i quali Guido Laganà, esponente della Dc. Purtroppo l’arcivescovo di Reggio Calabria, Giovanni Ferro, stroncò la carriera di padre Pacifico nella convinzione che egli avesse contatti con la ’ndrangheta».
Si sbagliava?
«Certo! Era accaduto che il nostro pastore si fosse battuto per trasferire la sede episcopale da Gerace a Locri, sul litorale, provocando le ire della ’ndrangheta, che arrivò al punto di erigere uno sbarramento sulla strada Gerace-Locri per impedire al vescovo di scendere a valle. Finché Antonio Macrì, capo della cosca che controllava la Locride, non diede ordine di lasciarlo passare».
E ciò insospettì l’arcivescovo Ferro.
«Esatto. In realtà Perantoni era uno studioso, lontanissimo dai malavitosi. Aveva una cultura sterminata, conosceva parecchie lingue, stare accanto a lui era un arricchimento continuo. Andavo a trovarlo spesso in vescovado, gli facevo da autista, gli portavo le torte».
Sua eccellenza era goloso?
«No, è che io sono pasticciere».
E perché lo seguiva ovunque?
«Sono molto religioso. Un dono della mamma. La sera, dopo aver lavorato tutto il giorno, leggeva le vite dei santi. E di notte si alzava per aggiungere olio alla lucerna che illuminava il suo altarino privato sul comò della camera».
Ecco, mi parli della sua famiglia.
«Mio padre Domenico partecipò come volontario alla guerra in Africa orientale. Tornò invalido al 100 per cento. Mia madre Marianna gestiva il bar-tabaccheria Odeon a Marina di Gioiosa Ionica. Sette figli. Io sono il secondogenito. Vivevamo dentro un magazzino, privo di luce, acqua e gas. Dopo la quinta elementare fui mandato a lavorare nella pasticceria di Silvio Scardò, a Siderno Marina.
Fino ai 25 anni affiancai mia madre all’Odeon. In questo modo quattro miei fratelli poterono diplomarsi o laurearsi. Prima di salire al Nord, comprai un terreno, firmando una montagna di cambiali, e costruii un nuovo bar, con due piani soprastanti. Lo lasciai ai miei, pagato. Un patrimonio di almeno 60 milioni di lire, parliamo del 1957, comprendente sala biliardo ed emporio di liquori, profumi e cancelleria».
Che lavori fece al Nord?
«Aiuto gestore in un lido con ristorante, sala da ballo e campeggio a Baveno. Cameriere al bar Motta di corso Italia a Genova. Autista del professor Michele Burnengo, docente all’Università di Parma. Commerciante di pelletteria in fiere e mercati del Veneto. Nel 1968 mi sposai a Canda. Tre anni dopo, il matrimonio, dal quale non erano nati figli, fu dichiarato nullo dalla Rota romana. Ho vissuto a Trecenta e Badia Polesine. Nel 2005 ho portato in Italia un’insegnante, Ecaterina Boghean, che in Moldavia, dove svolgo attività filantropiche, guadagnava 50 euro al mese. Oggi siamo marito e moglie».
Perché scelse proprio il Veneto?
«Per stare vicino a monsignor Perantoni, che nel 1974 diede le dimissioni e si ritirò a Peschiera del Garda, presso il santuario della Madonna del Frassino, dove morì nel 1982. È sepolto lì. Lui e il cardinale Luciani erano devotissimi alla Vergine. Entrambi facevano parte della Pontificia academia mariana internationalis. Mi confidò che il patriarca di Venezia gli aveva raccontato della sua visita a suor Lucia dos Santos. Luciani era uscito sconvolto dal colloquio, avvenuto l’11 luglio 1977 nel carmelo di Coimbra. La veggente di Fatima gli predisse: “Lei sarà papa dopo Paolo VI, ma per pochissimo tempo”». (Piange).
Mi risulta che il contenuto di quel dialogo non fosse stato svelato da Luciani neppure al fratello Edoardo.
«Si vede che Perantoni per lui era più di un fratello: un confessore. Tant’è che io, incontrando un giorno il patriarca lì al Frassino, me ne uscii ingenuamente con questa frase: eminenza, sono sicuro che sarà lei il prossimo papa. Al che Perantoni mi fulminò con lo sguardo. Ma Luciani, bonario, sviò da sé il pronostico con un gesto della mano: “No, no, per carità, preghiamo affinché il Signore ci conservi Paolo VI”».
Ebbe altri incontri con il cardinale?
«Sì, a Peschiera e a Venezia, in patriarcato. Vedendo il rapporto filiale che mi legava all’arcivescovo Perantoni, mi aveva preso a benvolere».
Che tipo era Luciani?
«Catechista, catechista, catechista. Di una fedeltà granitica al magistero e di una bontà angelica. Una volta mi disse: “Dovrai soffrire tanto”. Rimasi turbato: erano le stesse parole che mi aveva rivolto padre Pio».
In che modo conobbe il santo di Pietrelcina?
«Nel 1962 andai a San Giovanni Rotondo perché mia sorella Antonietta, bella ragazza, si era fidanzata con un geometra gelosissimo che le rovinava la vita con urli e scenate. Chiesi al frate di aiutarla. Mi batté una mano sulla spalla: “Sta’ tranquillo, non preoccuparti”. L’indomani Antonietta trovò la forza di mollare quell’individuo. Oggi è felicemente sposata con un perito agrario».
Incontrò padre Pio in quell’unica occasione?
«No, andavo a trovarlo ogni due o tre mesi. Mi chiamava Pepè, il medesimo nomignolo usato da Perantoni. Alle 4 di mattina c’era già la fila di postulanti ad aspettarlo. Ai malati che sarebbero guariti diceva la frase con cui accolse me: “Sta’ tranquillo”. Gli altri li congedava con una formula diversa: “Sia fatta la volontà di Dio”. Lui già sapeva che sarebbero morti. Una mattina gridò a uno sconosciuto: “Vieni qui, non vergognarti di mostrarti accanto a me”. Si trattava di un caporione del Pci che cadde convertito ai suoi piedi».
Lei, così vicino alle gerarchie, frequentava un religioso malvisto addirittura da Pio XII?
«Nel periodo di maggiore incomprensione con il Vaticano vidi quel sant’uomo costretto a celebrare messa dentro una celletta che misurava sì e no 2 metri per 1,80. Soffrì anche sotto Giovanni XXIII. E la vuol sapere una cosa? Prima di morire, Papa Roncalli consegnò al suo segretario una lettera dicendogli: “Questa è per padre Pio. Non vorrei essermi sbagliato sul suo conto”. Così mi riferì fra’ Angelico, cuoco di Perantoni, che l’aveva appreso dallo stesso arcivescovo».
Ne conosceva di segreti, questo Perantoni.
«Al trentesimo giorno del pontificato di Giovanni Paolo I, mi telefonò: “Pepè, vieni subito qui”. Mi trovavo a Trecenta. Presi l’auto e corsi a Peschiera. Passeggiammo per due ore sul piazzale del Frassino. Alla fine cercò di pormi fra le mani una lettera: “Questa la devi portare tu, di persona, ad Albino Luciani in Vaticano. Il Papa è in grave pericolo”. Aveva scritto a mano sulla busta il nome di Sua Santità. Mi rifiutai di compiere quell’ambasciata».
Perché?
«Pensavo che Perantoni esagerasse ed ero terrorizzato».
Non gli chiese su che cosa si fondassero i suoi timori?
«No. Capisco che le sembri strano, ma io sono un povero signor Nessuno. Per me era inimmaginabile che qualcuno potesse attentare alla vita del Papa. E invece... Tre giorni dopo ero di nuovo al santuario del Frassino a piangere, amaramente pentito, esattamente come mi aveva predetto Perantoni».
Neppure in questa circostanza domandò all’arcivescovo notizie sul contenuto della lettera che lei non ebbe il coraggio di recapitare a Papa Luciani?
«No».
Ma è contro ogni logica!
«Sarà contro ogni logica, ma io mi comportai così. Non tutti sono preparati come voi giornalisti, abituati a fare interrogatori tipo quello cui mi sta sottoponendo. Certo, avrei potuto prendere in consegna la lettera e tenermela. Oggi costituirebbe una prova. Ma non commisi questo sacrilegio».
Si sarà almeno fatto un’idea su chi avrebbe avuto interesse a eliminare Giovanni Paolo I.
«Gesù Cristo non venne forse messo in croce per 30 denari?».
Sia più esplicito.
«Con il tempo, mi sono ricordato di una frase che il cardinale Luciani disse a Perantoni: “I soldi che abbiamo appartengono ai poveri, perché sono i poveri, e non i ricchi, a mantenere la Chiesa. E noi che facciamo? Li diamo a Calvi!”. Non gli andava giù che la Banca Cattolica del Veneto fosse finita sotto il controllo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi». (Nel 1972 il patriarca di Venezia ebbe un aspro scontro con l’arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dell’Istituto per le opere di religione, circa la gestione del Banco San Marco e la vendita al Banco Ambrosiano del 37 per cento delle azioni della Banca Cattolica, effettuata dallo Ior senza informarne l’episcopato veneto. Secondo molte fonti, Luciani, appena eletto papa, avrebbe manifestato la volontà di rimuovere Marcinkus dalla presidenza, «perché un vescovo non deve dirigere una banca», ndr).
Perantoni le parlò mai di contrasti fra Giovanni Paolo I e monsignor Marcinkus?
«No. L’unico dissidio di cui mi parlò fu quello con il cardinale Sebastiano Baggio, originario di Rosà, prefetto della congregazione che aveva il potere di promuovere o retrocedere i vescovi. Il Papa insisteva con Baggio per nominare patriarca di Venezia un uomo di propria fiducia, in modo che continuasse l’opera da lui lasciata in sospeso. Per due volte il cardinale si rifiutò di uniformarsi alla volontà del Santo Padre.
Al terzo tentativo Luciani si spazientì: “Se a Venezia non mandi chi ti dico, ci dovrai andare tu”. Baggio uscì dallo studio papale sbattendo la porta. Il giorno dopo Luciani era morto. Di lì a un mese il cardinale vicentino fu riconfermato prefetto della Congregazione per i vescovi».
(Con il titolo di copertina «La grande loggia vaticana», sul settimanale Op diretto da Mino Pecorelli, poi morto assassinato, apparve il 12 settembre 1978, cioè nove giorni dopo l’insediamento di Giovanni Paolo I, un elenco di 113 alti prelati iscritti alla massoneria, nel quale figuravano i nomi di Baggio e Marcinkus, ndr).
Se i presunti nemici di Luciani fossero stati tanto potenti da farlo ammazzare nelle stanze vaticane, non crede che avrebbero potuto agire molto prima, e in modo indolore, «orientando» lo Spirito Santo a scegliere un papa diverso quale successore di Paolo VI?
«Perantoni mi raccontò ciò che il suo amico Albino gli aveva rivelato circa l’andamento del conclave. Il patriarca di Venezia era talmente atterrito dall’idea di essere eletto che una mattina, vedendo quattro cardinali intenti a parlottare nei corridoi, rientrò precipitosamente nella sua stanza per non dare nell’occhio. Uno dei porporati chiese: “Chi è?”. Un altro rispose: “Ma come, non l’hai riconosciuto? È il patriarca di Venezia”. Quei quattro cardinali erano tutti del Sudamerica e, conquistati da tanta ritrosia, votarono compatti per lui insieme ad altri porporati stranieri».
Lei non provò mai a informare qualche autorità religiosa dei sospetti dell’arcivescovo Perantoni?
«Mi stia a sentire. Una sera sono a cena a Bagnolo di Po dai fratelli Fantinati, latifondisti. Il Tg1 annuncia che Papa Wojtyla intende beatificare padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1993. Mi viene spontaneo battere un pugno sul tavolo: e Giovanni Paolo I, allora, non è stato anche lui vittima di un complotto mafioso? Decido di avviare una raccolta di firme perché Luciani sia proclamato beato. Parto per Roma. Entro nella basilica di San Pietro.
Vedo una trentina di berretti rossi che, finita una celebrazione, si avviano verso una navata laterale. Li raggiungo nella sacrestia in fondo a sinistra e ne fermo uno, di colore. Scoprirò poi che era il cardinale Bernardin Gantin, originario del Benin, e che Papa Luciani il giorno successivo al proprio insediamento lo aveva nominato presidente del Pontificio consiglio Cor Unum, il dicastero della Curia romana che promuove le iniziative umanitarie della Santa Sede. Chiedo di parlargli. Lui mi accarezza la guancia e risponde: “Aspetti”.
Si toglie i paramenti liturgici, congeda i presenti e mi chiede: “Sono qui, che vuole?”. Io gli illustro il mio proposito per una petizione a favore di Giovanni Paolo I beato. Lui replica: “È già santo”. Allora mi viene spontaneo fargli il nome dell’arcivescovo Perantoni. All’udirlo, il porporato ha un soprassalto e smette di guardarmi in faccia. Io lo supplico, gli tiro persino la veste: eminenza, eminenza, perché distoglie lo sguardo?, mi dica come devo comportarmi. Però Gantin taglia corto: “Lei è furbo, lei sa come fare”. Quindi, con aria complice, si lascia andare a un gesto tutto italiano: mi dà leggermente di gomito».
Fatico a decifrare la scena.
«Ma dottore, suvvia! In Vaticano le cose le sanno. Fra di loro se le dicono». (Esibisce un biglietto autografo di auguri per il 2002 scritto dal cardinale Gantin «con grande cordialità» e spedito a Badia Polesine, Riviera Matteotti 177, il precedente indirizzo di Pedullà).
E lei che fece?
«Cominciai la campagna affinché Luciani venisse elevato alla gloria degli altari. Raccolsi oltre 100.000 firme, girando tutti i santuari d’Italia e piazzando il mio banchetto in molte città, persino in Germania, Moldavia, Ucraina». (Mostra fasci di fotocopie con dati anagrafici e firme). «Le portai al vescovo di Belluno, Vincenzo Savio, il quale, prima di morire per un tumore, fece aprire la causa di beatificazione. Anche Savio era un santo. Sua madre visse quasi tutta la sua vita semiparalizzata. Mentre agonizzava, lui le chiese: “Mamma, facciamo il patto di Elia ed Eliseo?”.
Il profeta Elia, prima di salire in paradiso, lasciò il mantello al discepolo Eliseo, che divenne a sua volta profeta. Il vescovo Savio ottenne dalla madre il mantello della sofferenza, sopportò il male con grande dignità, fino ad avere il coraggio di annunciare dal pulpito che il cancro lo stava uccidendo e di chiedere ai preti e ai fedeli di pregare per la sua anima».
Ma chi è lei? Un collezionista di futuri santi e beati?
GIOVANNI PAOLO II WOJTYLA IN MONTAGNA
«Ci scherza, eppure ho speso la vita per la Chiesa. Ho portato in giro con la mia auto suor Brigida Maria Postorino, fondatrice delle Figlie di Maria Immacolata. Sono stato amico di padre Bonaventura Maria Raschi, il francescano a cui la Madonna chiese di costruirle un santuario sul monte Fasce di Genova, un esorcista legato a padre Massimiliano Kolbe, il santo polacco martirizzato dai nazisti nel “bunker della fame” di Auschwitz: per più di 70 volte aveva scacciato Satana.
Preparavo pranzi e dolci per l’arcivescovo di Trento, Giovanni Maria Sartori. Ho visitato fino all’ultimo suor Gesuina Vago delle Piccole Serve del Sacro Cuore di Gesù, morta a 109 anni nell’istituto di Casatenovo senza che il medico sapesse cosa scrivere sul certificato di morte: non era mai stata malata in vita sua, semplicemente si mise a letto, smise di mangiare e 20 giorni dopo il suo respiro cessò».
Non parlò con nessun altro della lettera di Perantoni?
«Con mia madre: scoppiò in lacrime e mi supplicò di tacere per non danneggiare il clero. E con un vescovo del Centro Italia». (Ne fa il nome però mi prega di non rivelarlo per evitargli imbarazzi). «Nel 2005 chiesi udienza a Benedetto XVI.
Dalla Segreteria di Stato vaticana mi rispose monsignor Gabriele Caccia: “Ella potrà comunicare per iscritto quanto intende riferire al Santo Padre”. Non ebbi il coraggio di farlo. Ma ora il tempo stringe e ho deciso di rimediare. Tutti devono sapere che Albino Luciani fu vittima di un complotto».
A me pare più verosimile che sia rimasto vittima delle sue coronarie malandate.
EDOARDO LUCIANI CON PAPA RATZINGER
«I fratelli Edoardo e Antonia in privato non erano di questo parere. La sorella mi nominava spesso don Licio Boldrin, parroco di Frassinelle Polesine, molto legato a Luciani, quasi a lasciar intendere che sapesse qualcosa». (Don Boldrin nel 1981 divenne campione di Flash, telequiz condotto in Rai da Mike Bongiorno, ndr). «È mio amico. Andò a trovare il Papa in Vaticano, portandogli una torta. Ancora se lo rimprovera: “Non vorrei che gli avesse fatto male il dolce cucinato da mia madre”».
Perché dopo queste peripezie continua ad avere fiducia nella Chiesa?
«Perché è mia mamma. Vede, noi Pedullà siamo sette figli: tre hanno ucciso moralmente nostra madre per motivi di eredità, ma quattro l’hanno sempre venerata. Se è capitato questo nella mia famiglia, come posso condannare la Chiesa? Io la amavo, la amo e la amerò anche dopo morto». (Piange).
Che cosa pensa di Papa Francesco?
«Lo stimo. Mi ha impressionato che abbia scelto di non abitare dentro il Palazzo Apostolico. Dev’essere un miracolo del Signore la libertà di cui gode. Non me la so spiegare altrimenti».