Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera”
«Dov’è?», chiede Miguel Gotor, senatore della minoranza del Pd.
Dietro di noi.
«Ah, ecco, appunto…».
Parlavamo di lui nel corridoio che conduce alla buvette di Palazzo Madama — tra un po’ leggerete cosa dice Gotor: roba tosta assai — e lui, Denis Verdini, è arrivato con la criniera bianca e quel passo felpato da grosso felino che gli viene grazie ai suoi mocassini di camoscio blu, scarpette simili a quelle di Flavio Briatore, però senza nappine e senza iniziali: che invece sono sulla camicia tagliata su misura, con i polsini stretti da gemelli d’oro massiccio, e quando ad un certo punto guarda l’orologio e domanda distratto:
«A che ora si vota?», tutti osservano anche il suo orologione, già molto invidiato ai tempi in cui gestiva militarmente le truppe dei berluscones ed era tra i pochissimi ad essere ammesso, nel ruolo di consigliere esperto, alle riunioni più tenebrose e segrete di Palazzo Grazioli.
Senatore, si voterà intorno alle 19.
«Mhmm… Dei giornalisti è meglio non fidarsi» (delle giornaliste, magari, sì: ne saluta quattro in successione e abbracciandole tutte affettuosamente).
Senta…
«Non vi dico mezza parola, capito?» (e ride divertito, compiacendosi d’essere il personaggio politico del momento).
Senta: oggi, per la prima volta in modo esplicito, la sua truppa di Ala appoggerà il governo di centrosinistra. È così che nasce il partito della Nazione?
«E no! Io non voto la fiducia al governo, io voto contro le due mozioni di sfiducia al governo. C’è una bella differenza, eh?».
Non c’è, e lo sa anche lui.
Lo sanno tutti.
Era il generale di cui Silvio Berlusconi si fidava maggiormente e adesso quelli della minoranza pd se lo vedono sfilare sotto gli occhi, costretti a considerarlo il loro miglior alleato. Che facce grigie, lunghe, mortificate: Migliavacca, Tronti, Guerra, Gatti, Tocci.
E Miguel Gotor.
«Guardi com’è vestito. Guardi come cammina. Direi che è antropologicamente diverso da noi».
Continui.
«Il voto dei verdiniani segna un passaggio emblematico: da oggi in poi saremo costretti a considerare, di fatto, Verdini come un nostro alleato. E no, dico: lo ricorda lei o lo ricordo io chi è Verdini?».
Io faccio le domande.
«E io dò le risposte, okay, va bene. E allora: noi, in questa vicenda di banche e di sospetti, riceviamo un aiutino da un signore che è sotto processo accusato di “truffa e bancarotta” d’una banca del Credito cooperativo non dell’Alaska, ma di Firenze… Posso aggiungere?».
Facciamo prima a dire ai lettori di farsi un giro su Wikipedia…
«No, aspetti, ancora una cosetta: sempre Verdini è sotto processo anche per un’altra vicenda, l’inchiesta sulla cosiddetta P3, e insieme a lui è in tribunale anche Flavio Carboni, un personaggio terrificante secondo cui il governo sta in piedi solo grazie a Verdini… Per tutto ciò, mi chiedo: perché Renzi non ha la forza di rifiutare simili imbarazzanti alleanze?».
Sul megaschermo del salone Garibaldi compare il senatore Francesco Campanella, un grillino finito nell’Altra Europa con Tsipras. Passa il leghista Roberto Calderoli di ritorno da un caffè che ormai nemmeno più in Patagonia fanno così cattivo.
Ecco il ministro Dario Franceschini alle prese con il caso delle statue dei musei capitolini che, in ossequio al presidente iraniano Hassan Rouhani, si sarebbero coperte da sole.
Il governo è schierato al completo.
E il premier sembra in gran forma.
Com’è insomma Renzi quando ha voglia ed è in palla.
Si capisce dalle prime battute.
Osservatori molto attenti in tribuna stampa notano che con il ministro Maria Elena Boschi s’è scambiato qualche battuta solo in una occasione, pochi minuti fa. Lui, freddino. Lei con la mano davanti alla bocca.
I fotografi non s’arrendono e, mentre Renzi parla di banche, di Banca Etruria e di padri banchieri, zummano verso gli scranni. Si vede la Boschi — lei di solito disinvolta, sorridente, molto sicura — scarabocchiare nervosamente su un pezzo di carta. Quando posa la penna, guarda fissa davanti a sé.
La grillina Paola Taverna ascolta stranamente composta, Monica Cirinnà ha un diavolo per ciascuno dei suoi ricci (perché la faccenda delle unioni civili è ancora assai ingarbugliata), Gaetano Quagliariello se ne sta buono buono ma poi sente Renzi che dice: «…E lui, Quagliariello, non mi sembra uno a cui piace vincere facile… a me anzi sembra uno a cui non piace vincere per niente!».
Venticinque minuti di discorso.
Poi applausi dei renziani.
Dichiarazioni di voto.
Chiamate per il voto.
E qui, all’improvviso, fiammata tra il leghista Consiglio Nunziante e Denis Verdini.
Con Verdini che diventa paonazzo, si avvicina e lì, a mezzo metro, gli mima in faccia il più volgare dei gesti.
Un vero peccato, se poi porti i mocassini di camoscio blu.