Francesco Verderami per "Il Corriere della Sera"
Denis Verdini«Se mi chiedi di obbedire, io obbedisco. Se mi chiedi di crederci, io non ci credo». Denis Verdini l'ha scritto due mesi fa a Berlusconi e gliel'ha ripetuto anche ieri al telefono: «Silvio, alle novelle non ci credo. Ultimamente ne ho sentite tante, mi manca solo quella su cappuccetto rosso».
Altro che «rassicurazioni» e «garanzie»: alla storiella della «pacificazione» il coordinatore del Pdl non dà alcun credito. Anzi teme per il Cavaliere che il finale della favola non sia a lieto fine, vede la minaccia del lupo che nella sua trasposizione politica diventano due: «Siccome da sola la sinistra non è mai riuscita a fare un boccone di Berlusconi alle elezioni, ha avuto il soccorso di un apparato editorial-imprenditoriale che si è messo all'opera e ha amplificato l'attacco dei magistrati per distruggere il leader del centrodestra».
SILVIO BERLUSCONIIl «disegno è chiaro», e secondo Verdini cappuccetto rosso - invece di andare alle urne due mesi fa - avrebbe incautamente infilato la testa nelle fauci dei due lupi, dando il via libera al gabinetto di Enrico Letta. Il tempo di sfuggire al «disegno» ci sarebbe ancora, quantomeno Berlusconi dovrebbe provare a sfruttare la finestra elettorale di ottobre. È tutto nero su bianco, il dirigente del Pdl ha sviluppato la trama del suo racconto in vari capitoli, che poi sono i famosi report inviati ogni settimana a Berlusconi.
Enrico LettaIn quelle pagine c'è scritto che «a fronte di una situazione economica drammatica, si aprono grandi spazi di azione politica». A un Paese allo stremo e che ha «ormai esaurito anche il grasso di scorta», bisogna proporre «soluzioni alternative» rispetto a quelle adottate dai governi Monti e Letta: una politica «non contro l'Europa ma contro questa Europa», a cui andrebbe detto posto una sorta di ultimatum, della serie «o cambi o cambiamo noi»; un intervento «drastico» sul debito pubblico unito a un «forte taglio» delle tasse; e ovviamente la riforma della giustizia.
All'obiezione che gli elettori si sono stufati di sentire Berlusconi evocare la «rivoluzione liberale» nei comizi, tranne dimenticarsene quando entra a palazzo Chigi, Verdini replica che «quelli che non lo hanno votato, non sono andati a votare per altri», dunque potrebbero essere recuperati alla causa. Il punto è che le urne non sembrano alle viste, sebbene per il coordinatore del Pdl i margini per ottenerle ci sarebbero.
GIORGIO NAPOLITANOAlla novella, «una delle tante», che se cadesse Letta arriverebbe subito Renzi non ci crede: «È vero che Napolitano non è propenso a sciogliere le Camere - ha scritto in una delle analisi trasmesse al Cavaliere - ma senza di noi non ci sarebbero i numeri a palazzo Madama. Non tutti i senatori di Scelta civica appoggerebbero un governo composto da Pd, Sel e i fuoriusciti grillini».
Verità o leggenda? Inutile affannarsi, tanto Berlusconi per ora non vuole tentare la prova di forza, «così la situazione è bloccata e siamo allo stallo». È chiaro che il ritorno a Forza Italia doveva coincidere con un ritorno alle elezioni, mentre adesso il «ritorno alle origini» - come lo definisce Verdini - rischia di essere soltanto il terreno per un regolamento di conti interno.
E tra un Alfano assediato e una Santanchè scatenata, il Pdl sembra tornato ai tempi delle primarie, quando fu sul punto di spaccarsi. Lo scontro è così aspro che persino il nome di Marina Berlusconi è stato usato come arma impropria, e a detta del dirigente del Pdl «il fatto di parlarne come futura leader, danneggia tanto lei quanto il padre». Non a caso l'altro ieri Verdini - restio ad apparire - si è speso pubblicamente per ribadire che il centrodestra ha un capo: «Silvio Berlusconi».
santanche e alfano - copyright PizziIl capo però non ha fatto la mossa che l'uomo forte del partito si aspettava, e per certi versi si aspetta ancora. Niente crisi, «per ora», e avanti con un governo che appare «fragile politicamente ma abile mediaticamente», su cui il Paese «al momento non ha espresso un giudizio»: «Lo attende alla prova».
Il test-match sarà la legge di stabilità, nonostante Verdini non nutra molte speranze a riguardo: «Servirebbe coraggio, temo però che non ne avrà». La tattica dei piccoli passi sembra contraddistinguere in questa fase l'esperienza delle larghe intese, che nel Pdl come nel Pd viene tenuta sotto osservazione per capire se avrà vita breve o diventerà il laboratorio di una nuova geografia politica.
La teoria del «governo che si fa partito» è un'altra novella a cui il coordinatore del Pdl non dà credito, «non ci sono i margini perché si concretizzi. A meno che...». A meno che? «A meno che non sia Berlusconi a volerlo, a farsene interprete e sostenerlo. Ma questo presupporrebbe la sua definitiva uscita di scena». Si capisce che a Verdini questo finale non lo convince (quasi) quanto la storiella della «pacificazione».