Roberto Saviano per “la Repubblica”
È morto all’età di 71 anni Carmine Schiavone, il primo pentito del clan dei Casalesi. Era ricoverato in ospedale dal 10 febbraio, dopo essere caduto dal tetto della sua abitazione mentre stava effettuando dei lavori. Nell’impatto con il selciato, aveva riportato la rottura di una vertebra e altre lesioni. Otto giorni più tardi, era stato sottoposto ad un intervento chirurgico. Ieri, il malore e poi l’arresto cardiaco. Acquisita la cartella clinica, oggi sarà dato l’incarico per l’autopsia. Il procuratore Federico Cafiero de Raho: «Bisognerà capire bene come sia morto, venerdì sembrava star bene».
Carmine Schiavone è morto. Il cuore dell’ex boss del clan dei Casalesi si è spaccato. Muore un personaggio ambiguo, contraddittorio, immorale, carismatico che nella vita è stato in grado di fare scelte importanti, coraggiose e di muoversi sempre con furbizia, pronto a compiacere gli interlocutori, rigoroso e dettagliato in tribunale per poi cambiare di colpo registro quando interloquiva con i media dove diveniva generico, iperbolico, più opinionista che testimone. Va studiato con prudenza e attenzione. Da lui è partito il percorso che ha fatto scoprire una delle mafie più potenti del mondo.
Il suo soprannome era Carminuccio, sin da ragazzo tra i fondatori del clan dei Casalesi, fedele a Mario Iovine e Antonio Bardellino, che gli affidò la gestione degli appalti. Opere pubbliche, rapporto con i politici, la filiera del cemento. Prima fascista, poi convinto democristiano sotto l’ala del senatore Francesco Patriarca. Vanesio e violento, spendeva circa 30 milioni di lire al mese, uno yacht, case in diverse città, amanti: eppure riusciva al momento giusto a sparire o a sembrare un altro.
Aveva visto cadere uno a uno i suoi maestri e “padrini” ma era sempre stato in grado di stare con i vincenti. Prima muore Bardellino in Brasile, poi Marittiello Iovine in Portogallo, poi “il fuggiasco” De Falco.
È la sua famiglia spesso a tirare le fila, ad appoggiare e tradire patti, a provocare l’autodistruzione dei rivali. E della famiglia lui è il manager, in contatto con i Nuvoletta nonostante questi — legati ai Corleonesi — fossero nemici di Bardellino, legato a invece a Stefano Bontade e Tommaso Buscetta.
Un accorto diplomatico, con una visione paternalistica della camorra. Difensore di regole ferree: si compra droga ma non si spaccia a Casale; si vende solo al nord e a Roma; chiunque nei territori controllati dal clan ruba dev’essere punito; chi tocca le minorenni va evirato. Una legge ancestrale violenta ma guidata dal buonsenso. In realtà solo apparenza, per creare consenso.
Carmine era un talent scout: capiva chi aveva la stoffa di vincere e lo allevava. Punta su suo cugino Francesco “Sandokan” Schiavone e sul fratello Walterino come segmenti militari: li considera capaci, assai più validi di Cicciotto Bidognetti. Sente che il gruppo può arrivare ovunque e che alla testa della famiglia c’è lui.
Qualcosa però un giorno inizia a vacillare. I carabinieri vanno a colpo sicuro nella sua azienda a Santa Maria la Fossa. Trovano due fucili mitragliatori e due fucili a pompa. Sono le armi utilizzate durante la strage di Casapesenna del dicembre 1988 dove vennero uccisi uomini fedeli di Bardellino e un calabrese (prova concreta dell’alleanza tra ’ndrine di Vibo e Casalesi). Carmine sa che è una soffiata ma non capisce di chi. Va in carcere ma riesce ad ottenere i domiciliari, scapperà in Puglia sicuro delle sue protezioni.
In Puglia mentre è latitante gli arriva la notizia della condanna in primo grado per le armi: sette anni, una mazzata per uno come lui che era riuscito sempre ad entrare e uscire facilmente grazie a condanne lievi. Carmine non vuole farsi il carcere proprio nell’esatto momento in cui la sua carriera è in ascesa. È il suo turno per sedere al vertice, non può perder tempo in cella.
Decide di vivere in latitanza, si sente sicuro, ce la farà. Invece incappa in un posto di blocco messo ad arte ed è arrestato dai Carabinieri, ancora una volta sono arrivati a colpo sicuro. Carmine è in carcere, sente che qualcosa non torna. In quel periodo in Sicilia i Corleonesi uccidono Falcone e Borsellino e a lui tocca il carcere duro ed è proprio li che riceve la notizia che temeva: non sarà lui il riconosciuto capo dell’organizzazione.
Lo esautora il cugino Francesco che non voleva essere solo un soldato ma un capo vero, applicando le regole morali e un vecchio codice della sua camorra (usato anche dalla vecchia guardia di Cosa nostra): per essere un capo non devi essere stato iscritto al partito fascista né comunista, niente droghe e non devi avere amanti. Carmine Schiavone cade vittima di se stesso: grande amatore, tante amanti. Viene considerato inaffidabile. Il messaggio che gli mandano è chiaro: ti teniamo in vita perché hai quel cognome, tieniti la vita e fatti da parte.
E allora Carmine comincia a parlare. Dalle sue dichiarazioni partirà il processo Spartacus. Federico Cafiero de Raho (e non solo) della Dda di Napoli nel 1993 vaglierà ogni singola dichiarazione di Schiavone, per evitare gli errori commessi con il caso Tortora. Il lavoro giudiziario è epocale per rigore e prudenza. E il Processo Spartacus svelerà al mondo l’esistenza del clan dei Casalesi: 115 persone processate, esordio nel 1998, chiusura in primo grado nel 2005.
Schiavone pubblicamente dirà che il motivo del suo pentimento è la trasformazione amorale della camorra. Pagherà un prezzo altissimo. Il clan cerca prima di avvelenarlo con la stricnina, e la famiglia si allontanerà da lui. «Mio padre è un infame» scriverà la figlia, «È un grande falso, bugiardo, cattivo ed ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia».
Il suo nome in realtà per il grande pubblico è legato alla terra dei fuochi. Seguendo le sue testimonianze si è arrivato a conoscere il sistema di Cipriano Chianese ad oggi la più sottovalutata mente dei traffici tossici in Italia e uomo in grado di essere vicino a molti dirigenti dello Stato ancora potenti. Schiavone nell’ottobre del 1996 viene ascoltato dalla commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. La sua dichiarazione viene secretata, prassi solita per far procedere le indagini e non comprometterle.
Svela comunque un meccanismo infallibile usato dai clan: un terreno di loro proprietà diventa una discarica di rifiuti legali e illegali, poi viene venduto dalla camorra allo Stato per farci una strada; Poi la si copre e l’affare è fatto. Il clan guadagna da ogni passaggio. Si apre una discarica, la riempie di rifiuti legali (e si guadagna), poi rifiuti illegali (altro guadagno), poi quella stessa terra la si vende allo Stato (altri soldi), e lo Stato affida alle imprese della camorra le opere di costruzione sopra la terra avvelenata. Semplice e letale.
LA PROTESTA NELLA TERRA DEI FUOCHI
Quando finisce il suo rapporto di collaboratore di giustizia perché ha scontato grossa parte della sua pena succede qualcosa di molto italiano. Può un pentito uscito dal programma di protezione con processi ancora sulle spalle partecipare a programmi tv? Scrivere sui giornali? Eppure accadeva.
Appariva a volte ridicolo il suo nascondersi indossando nelle interviste occhiali da sole. Tutti sapevano dove vivesse e come fosse il suo viso non era nemmeno più scortato gli ultimi tempi. Ma il clan non aveva forza e volontà di eliminarlo. Può un collaboratore di giustizia avere pagine Facebook? Accade anche questo in Italia a diversi ex collaboratori. Ma trasformare in editorialisti degli assassini e dei mafiosi è un gioco pericolosissimo..
Sulla terra dei fuochi Carmine Schiavone ha capito che poteva risultare eroico. L’uomo criminale che dichiara di aver fatto del male ma che accusa lo Stato di essere molto più sporco di lui. Gioco facile e identico per moltissimi collaboratori di giustizia che dovrebbero essere ascoltati solo per ciò che rivelano e non per le loro analisi: e soprattutto solo dopo attente verifiche. Ha parlato di scorie nucleari dalla Germania indicando genericamente posti ma nulla è stato trovato. Il suo merito su questo? Ha comunque fatto concentrare l’attenzione sul territorio.
terra dei fuochi la verita sta venendo galla
Non piangeranno in molti la morte di Carmine Schiavone. Personalmente però gli devo qualcosa. Lo incontrai quando ancora era nel regime di protezione, i Carabinieri mi misero dei microfoni addosso e quelle registrazioni (poi rese pubbliche) mi cambiarono la vita. Sentire che avevo ricevuto una condanna a morte da una delle figure storiche del clan dei Casalesi mi trasformò. E il colloquio con lui cominciò inaspettato con un «Mi ricordo di te quando eri piccolo e stavi pieno di capelli».
Diceva spesso: «Quando muoio andrò di fronte all’unico che ha titolo di giudicarmi». Personalmente quando muoiono camorristi è l’unico momento in cui rimpiango di non esser credente e di non credere in un inferno. Sulla terra dei fuochi ancora poco, pochissimo è stato fatto e bisognerebbe capire se le sue dichiarazioni hanno ancora qualcosa da svelare o sono state sufficienti. Certo è che non si sta agendo. Non abbastanza. Carmine Schiavone era un assassino, un boss, delle cui parole però la giustizia ha avuto bisogno.