L'UNICO BUSH DECENTE È UN BUSH PERDENTE - NON BASTANO 100 MILIONI DI DOLLARI SPESI, MAMMA, PAPÀ, FRATELLO E MEZZO ESTABLISHMENT REPUBBLICANO. JEB MOLLA TRA LE LACRIME (VIDEO) - ORA CLINTON SPERA CHE LA MALEDIZIONE DINASTICA NON COLPISCA ANCHE LEI
VIDEO - JEB BUSH ANNUNCIA L'ADDIO TRA LE LACRIME
2. JEB, LACRIME E SCONFITTE IL CANDIDATO SENZA QUALITÀ CHE CHIUDE LA SAGA BUSH
Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
GEORGE BUSH - GEORGE W BUSH - JEB BUSH jeb bush
È finita con una lacrimuccia e la voce di Jeb strozzata dal magone, come di un bambino che sa di avere deluso mamma e papà con la brutta pagellina, la “Saga dei Bush”, la storia di una famiglia che aveva avuto per dodici anni in pugno le chiavi della Casa Bianca come nessun’altra e ora scopre di essere stata lasciata fuori dalla porta.
Quando l’ultimo erede della dinastia, quel John Ellis Bush detto Jeb che in meno di un mese aveva dilapidato quasi 100 milioni di dollari in campagna elettorale senza vincere niente, si è arreso con un discorso d’addio rotto dalla commozione, è caduto il mito della invincibilità del Clan. E si è aperto il dramma di un uomo che sarà ricordato come “quello che ha perso”, come il figlio prediletto della mamma, della Barbarona che aveva portato la nuvola bianca dei suoi novantenni capelli in campagna elettorale per salvare il suo sessantatreenne bamboccione, soltanto per scoprire che era irrecuperabile.
Non ci sarà quindi un altro Bush alla Casa Bianca, non per decenni a venire, in attesa che forse, in un giorno del futuro lontano, un altro George Bush (il Clan non brilla per originalità della scelta dei nomi di battesimo) figlio di Jeb e della moglie Columba muova dal Texas dove è assessore al Catasto verso traguardi nazionali.
Come un’altra casata americana, quella dei Kennedy, che in un decennio di gloria e di sangue, negli Anni ‘60, era salita sul trono della politica e dei rimpianti soltanto per precipitare con la disastrosa corsa di Ted Kennedy nel 1980, così i Bush hanno dovuto scoprire che, nonostante la famiglia, gli amici, il nome, i finanziatori, la rete di supporter, l’America non è ancora una monarchia che si tramanda di padre in figlio. Al massimo, e per una volta, potrebbe passare dal marito alla moglie, nel caso dei Clinton.
Sulle spalle dell’affranto Jeb, che si era ridotto ad abbandonare gli occhiali e usare le lenti a contatto per sembrare più giovane e ad esibire su Facebook la rivoltella calibro 9 per non sembrare quella pussy, quella fighetta come Donald il Bullo l’aveva chiamato, pesano ora quasi 500 anni di ritratti di famiglia, dove il suo sarà coperto dal drappo del battuto.
I Bush, con il loro cognome indiscutibilmente wasp, bianco, anglosassone e protestante, una genealogia che risale, nella mitologia famigliare, addirittura al XVI secolo: ma che, leggende escluse, erano corsi rapidi sui binari del potere religioso, finanziario e politico per gli ultimi 150 anni. A volte rischiando di deragliare, come fu per il nonno di Jeb, banchiere, bloccato dalla Casa Bianca di Roosevelt quando si scoprì che il suo istituto di credito finanziava imprese naziste e riccamente ne profittava.
Ma non ci sarebbe stata altra famiglia a poter vantare incarichi, successi, privilegi come i Bush. Anche attraverso matrimoni dinastici, fra loro e i potenti Walker, dai quali viene quella “W” che periodicamente ricompare nei nomi come George Walker Bush, gli eredi di un ingegnere ferroviario del New Jersey, che nell’800 aveva approfittato dell’enorme boom della rotaie, hanno accumulato un curriculum senza confronti nella storia delle democrazie moderne e di quella americana.
I Bush, inventandosi anche una versione “texana” e immaginaria, con la corsa al petrolio del bacino sotto la crosta del Texas, hanno prodotto un senatore, un deputato, un ambasciatore, un direttore della Cia, un vice Presidente, due governatori di Stati, due Presidenti, più una innumerevole quantità di influenti giornalisti televisivi, finanzieri, bancarottieri (come il fratello del vecchio Presidente, protagonista del grande crack delle casse di risparmio).
Ma sempre riuscendo a mantenere attorno a sé un velario di misteri e di discrezione che risale a quella società segreta di studenti di Yale, detta dei “Teschi e Ossa”, alla quale i Bush hanno aderito generazione dopo generazione. E accumulando ricchezze mai censite, con amicizie, rapporti personali e fruttuosi fondi privati di investimenti puntellati dai grandi amici sauditi e cinesi, a volte intervenuti per salvare con i loro soldi proprio il futuro 41esmio presidente dalla prima impresa petrolifera, la “Arbusto” (spagnolo per Bush) finita in crack.
Quando George W. fu eletto presidente nel 2000, il padre George H.W., l’ex capo dello Stato, per rimediare alla profonda ignoranza di mondo del figlio, chiese all’ambasciatore saudita, principe Bandar bin Sultan di erudire il pupo nelle questioni internazionali, in una settimana di clausura nel grande compound famigliare nel Main, a Kennebunport, mentre il vecchio si concedeva le corse sui sui motoscafi superveloci, le cigarette boat.
Dai Kennedy che andavano a vela al largo di Hyannisport, ai Bush che sfrecciavano a motore più a nord, al largo del Maine, le due dinastie americane sono naufragate comunque: nella tragedia i Kennedy, nell’inettitudine i Bush, dove la generazione succeduta al vecchio, abile George I, il guerriero di Desert Storm, ha provato la propria inadeguatezza. Prima con la guerra in Iraq poi con il collasso bancario del 2008 e ora con pochezza di un candidato, Jeb, umiliato dal bullo Trump che lo chiamava «fighetta senza energia» e dai più giovani e rapaci Cruz e Rubio.
marco rubio jeb bush ben carson
È stato proprio quel nome che doveva essere la forza, a rivelarsi la debolezza di un uomo comunque troppo debole, forse troppo per bene, troppo ben allevato dalla mamma: a schiacciare Jeb, stretto fra la necessità di difendere il fratellone primogenito e quella di denunciarne gli errori. Ora, riassorbito nel grembo della “Famiglia dei Segreti”, come la definì Russ Baker in una feroce biografia, Jeb, il candidato senza qualità e con troppi finanziatori, dovrà reinventarsi una vita.
Il fratello, George Dubya, si è dedicato alla pittura della domenica, vendendo quadri agli amici «ma credo più per la firma che per il valore artistica» ha detto con spiritosa autoironia. John Ellis “Jeb” Bush non sa dipingere e la sua firma non venderà. Tornerà a piangere dalla mamma che gli risparmierà la sculacciata che Rose Kennedy avrebbe inflitto ai suoi rampolli, ammonendoli che «un Kennedy non piange». Un Bush, invece, può almeno piangere.
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