Federico Fubini per “la Repubblica”
Qualche mese fa si è presentato alla Corte di Appello di Roma il delegato di uno studio legale a nome di un cliente che proprio non riusciva a venire di persona: l’avvocato generale dello Stato libico, almeno a credere alla versione del suo rappresentante. In quell’incontro, e altri successivi, il legale italiano non è mai riuscito a dimostrare veramente che dietro di sé c’era un’istituzione sovrana libica, ammesso che qualcosa del genere oggi esista davvero.
Ma chi lo ha incaricato conosceva bene il Paese, perché aveva richieste precise. Voleva entrare in possesso di una villa di Roma e di un conto bancario appartenuti a Muammar Gheddafi, perché ora sarebbero proprietà della Libia.
Quei beni non sono particolarmente preziosi, almeno rispetto al resto. Il conto di Gheddafi in una banca romana vale circa 290 mila euro, ma ne ha discusso comunque il Comitato di sicurezza finanziaria: la Farnesina, il ministero dell’Economia, la Banca d’Italia, la Guardia di Finanza, i Carabinieri, l’Agenzia delle Dogane. La decisione alla fine è stata negativa: resta tutto sotto sequestro dei tribunali italiani, su mandato della Corte penale internazionale dell’Aja.
Quell’episodio non ha lasciato traccia. Tutti però sono consapevoli che anch’esso è la spia di una realtà più vasta e complessa, attorno alla quale si combatte una parte fondamentale della battaglia per la Libia. Si tratta di una partita sotterranea, visibile solo a pochi, ma capace di produrre ripercussioni ogni giorno sulla sponda Sud del Mediterraneo.
È inevitabile che sia così, perché la villa e il conto di Gheddafi a Roma sono una goccia nell’oceano del patrimonio della Libia. Quelle risorse sono l’oggetto di una sorda battaglia fra chi vorrebbe usarle per alimentare la guerra civile e chi cerca di proteggerle per la futura ricostruzione del Paese, aiutato dai cinque Paesi più coinvolti: Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti.
Le partecipazioni del fondo sovrano Libyan Investment Authority (Lia) oggi valgono almeno 50 miliardi di dollari, anche se da anni manca una contabilità ufficiale. La lista dei titoli nel portafoglio della Lia fu resa nota nel 2011 dal miliardario franco-tunisino Tarak Ben Ammar, quando durante la rivoluzione emerse che una sua società maltese era in affari con la Lia di Gheddafi e con Trefinance, una controllata lussemburghese della Fininvest.
E quell’elenco è lunghissimo, perché il regime di Gheddafi è crollato prima di riuscire a smobilizzare le sue partecipazioni e da allora nessuno sembra averne il controllo: quel portafoglio fu prima congelato su mandato internazionale, poi scongelato nel 2012 e da allora nessuno sembra davvero disporne.
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Il fondo sovrano libico ha il 3,2% di Pearson, il gruppo proprietario del Financial Times e co-proprietario dell’ Economist, ha quote in società americane della difesa come Halliburton o del petrolio come Chevron e Exxon Mobil. In Francia è presente in un altro gruppo della difesa-aerospazio come Lagardère. E in Italia ha quote in alcuni dei gruppi maggiori.
Dell’Eni la Lia ha probabilmente ancora l’1%; di Unicredit la banca centrale libica ha il 2,92 ed è il quinto socio; di Finmeccanica, il gruppo della difesa controllato dal Tesoro di Roma, la Lia ha il 2,01%. Ci sono poi ovviamente società minori come il gruppo milanese di tecnologie delle telecomunicazioni Retelit, del quale la Società libica di Poste e Telecomunicazioni ha il 14,8% ed è il primo azionista. Della Juventus invece la quota libica è ormai diluita sotto al 2%.
Poi c’è la Banca centrale libica, molto più ricca e liquida del fondo sovrano: dispone di conti per circa 100 miliardi di dollari, frutto di decenni di surplus petroliferi, e quel tesoro giace in decine di depositi bancari Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Secondo osservatori vicini a questo dossier, la banca centrale di Tripoli ha conti aperti a Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bnp Paribas, Société Générale, Credit Agricole, e poi a Londra alla Hsbc, a Barclays e al Lloyd; a Wall Street, resta un conto alla Bank of New York Mellon.
gli ultimi istanti di gheddafi
Su tutte queste risorse la tensione è massima. Molte restano dormienti, al punto che a volte le imprese coinvolte non sanno a chi pagare i dividendi. Sparsi per tutto il Medio Oriente, un gruppo di economisti e uomini di affari libici compone il “consiglio” della banca centrale di Tripoli e amministra le riserve.
Secondo negoziatori occidentali esse sono in gran parte congelate. Secondo fonti libiche la banca centrale ne usa però i proventi per permettere al Paese di importare cibo e medicine. Non ci sono prove che quei fondi vengano usati anche per l’acquisto di armi. Ma se per ipotesi a prendere controllo della Libia alla fine fossero davvero le forze della jihad, arriverà il momento in cui anch’esse reclameranno i propri averi alle banche di Wall Street, della City, di Parigi, o di Milano.
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