LA VERSIONE DI MUGHINI – LA DECISIONE DELLA POLONIA DI TIRAR VIA IL “MEMORIALE DI AUSCHWITZ” È SBAGLIATA, MA I POPOLI DELL'EST, CHE HANNO SUBITO IL COMUNISMO FINO AL 1989, HANNO AVUTO UNALTRA NARRAZIONE..."
LETTERA A DAGOSPIA DI GIAMPIERO MUGHINI
Caro Dago, a dimostrazione che il “Fatto” sia (almeno per me) un quotidiano indispensabile, solo su quelle pagine ho letto una nota di Furio Colombo in cui si commentava la decisione del governo polacco di tirar via dalla Polonia il “Memoriale di Auschwitz” che Primo Levi e altri intellettuali italiani antifascisti (e di sinistra) avevano congegnato nel 1970.
Colombo lamentava questa decisione, accettata dal governo italiano, e ribadiva che l’ “antifascismo” rappresenta tutto il bene del mondo e che è pazzesco tirar via un memoriale che ricorda quale schifezza sia stato il fascismo italiano e quali orrori ne siano venuti al nostro popolo e alla nostra gente. Tutto sacrosanto, ciascuno di noi lo sa dalla terza media o forse prima. Figuriamoci se non stiamo dalla parte della memoria e della testimonianza di Levi, uno che ad Auschwitz ci andò a finire solo perché ebreo.
Solo che il punto, in questo caso, è totalmente un altro. Per la buona parte dei polacchi, per la grandissima parte degli ungheresi, per tutti i tedeschi che vivevano a est di Berlino, per i cecoslovacchi, per i rumeni, per gli abitanti dei Paesi Baltici, per tantissimi degli stessi cittadini russi, la “narrazione” simbolicamente dominante di quegli anni è totalmente un’altra, e mi stupisce che un uomo accorto e collaudato come Colombo stenti ad accorgersene.
Per loro, ossia per la grandissima parte dell’Europa di mezzo, dopo il 25 aprile 1945 le cose sono andate in modo completamente opposto a quello che raccontano i babbei dell’antifascismo totalizzante che spiega ogni dettaglio della storia moderna alla luce dell’antinomia fascismo-antifascismo.
Per la gran parte dei popoli dell’Europa di mezzo, il 25 aprile 1945 è la data in cui irrompono nelle loro città, nelle loro strade, nelle loro case, negli edifici adibiti a luoghi di tortura e di detenzione, le orde assassine di un esercito (sovietico) e di una polizia politica il cui imperio durerà _ sfumatura più sfumatura meno _ sino al 1989, l’anno in cui il comunismo reale viene cancellato e sepolto nel disonore.
valigie dei prigionieri ad auschwitz
Quaranta e passa anni durante i quali per Mario Alicata, per il giovane Luigi Pintor, per il giovane Maurizio Ferrara, per il giovane Giorgio Napolitano, per il giovane Enrico Berlinguer, l’Urss rappresenta tutto il bene del mono. Dio mio.
E invece per i polacchi del 1945 l’Armata Rossa non era l’avvento del bene e bensì erano coloro che indossavano le divise degli assassini di Katyn, lì dove di polacchi ne massacrarono 14mila, cioè quaranta volte gli innocenti uccisi alle Fosse Ardeatine.
Il regista Andrej Wayda ancora per tutti gli anni Cinquanta non lo poteva pronunciare il nome di quella località, dove avevano ucciso fra gli altri suo padre (il film dedicato da Wajda a quella tragedia lo hanno tolto dalle sale italiane dopo pochi giorni perché lo capite bene che il pubblico dei libri della Einaudi, della “Repubblica”, dell’ “Unità”, credo del “Fatto” o delle manifestazioni in cui bramano di sentire “qualcosa di sinistra”, di andare a vedere quel film gliene poteva fregare meno che niente). Così è della Polonia reale, caro Colombo. Altro che il nostro amatissimo Primo Levi, ahimé.
pesticidi usati per gli ebrei ad auschwitz
Sono stato di recente a Budapest, dentro l’edifico che sorge al numero 60 del viale forse il più bello ed elegante della città. Al numero 60 di Andràssy Road. Dal marzo 1944 agli ultimi di dicembre del 1945, quando ormai i soldati russi avevano accerchiato Budapest (o meglio Buda e Pest) era stata la sede delle Croci Frecciate, i nazi ungheresi estremi che in quelle stanze interrogavano e torturavano ebrei e ungheresi politicamente altri.
Appena arrivarono russi e comunisti ungheresi allevati dai russi, presero possesso dell’edificio. Lo ingrandirono, lo perfezionarono come sede di tutti gli orrori possibili. L’attuale governo ungherese ha ricostruito tutto, le celle, le sale di tortura, gli strumenti di tortura, l’ufficio del delinquente che faceva da capo della polizia politica, un ex sarto che in tutto e per tutto aveva fatto la quarta elementare. Ero alle lacrime nel passare una dopo l’altra attraverso quelle stanze, un luogo simbolico che nella nostra memoria non merita meno di Auschwitz ma che purtroppo non credo siano molti gli italiani che lo conoscano.
Colombo credo che tu lo conosca senz’altro, ma allora perché hai scritto quella “pippa” straovvia in cui l’antifascismo è il rifugio di tutti i beni e la conclusione di ogni discorso? Quelle tue parole le ripeteresti di fronte a Sandor Màrai, il più grande scrittore ungherese del Novecento, quello che dall’Ungheria se ne andò via nel 1948, quello che in un suo libro che in Italia non verrà mai tradotto scrive che ci passava innanzi all’edificio di Andràssy Road e gli assassini comunisti li vedeva affacciati al balcone con le mani sui fianchi?
occhiali dei prigionieri di auschwitz
Qual è la narrazione giusta dell’Europa reale di dopo l’aprile del 1945, quella di Màrai o quella del nostro ottimo Colombo? Furono anni benedetti dall’antifascismo vittorioso o furono anni maledetti dal comunismo reale vittorioso? Furono anni di gioia e di letizia e di libertà, come avvenne per noi italiani (in un Paese dove a vincere le elezioni per nostra fortuna furono Alcide De Gasperi e Giuseppe Saragat), o furono un incubo come per i tedeschi di cui parla Rebecca West in questo spettacolare libro voluto adesso da Eileen Romano, “Serra con ciclamini” (Skira editore)?
Fu il tempo della gioia e del ritorno a casa, come avvenne al nostro Primo Levi, o in mezza Europa fu il tempo del’onnipotenza degli aguzzini e dei torturatori alla maniera di quelli che nel 1939 avevano annichilito Isaak Babel prima di ucciderlo come un cane, quei due delinquenti bolscevichi di cui uno aveva fatto la quarta elementare e uno la seconda media e che non sapevano neppure chi stavano assassinando da come racconta lo scrittore russo Vitalij Sentalinskij in un libro dimenticatissimo del 1993? Mi sbaglio, caro Colombo? Onore a Levi. Ma non solo a lui.
muro della morte ad auschwitzinsegna il lavoro rende liberiingresso auschwitzinterno baracche ad auschwitz