VIVA, VIVA, LA TRATTATIVA! – NAPOLITANO AMMETTE CHE NEL ’93 LA MAFIA RICATTÒ LO STATO CON LE BOMBE: E’ POSSIBILE ALLORA CHE PEZZI DELLO STATO SI MOSSERO PER TROVARE ACCORDI CON I CLAN - I MISTERI SU D’AMBROSIO E LA SUA LETTERA
Salvo Palazzolo per “la Repubblica”
La sala del Bronzino, al Quirinale, dov’e? avvenuta la deposizione di Napolitano
Nella sala dei Capi di Stato, il testimone presidente Giorgio Napolitano giura di dire tutta la verità davanti alla corte d’assise di Palermo. Al suo fianco, c’è la bandiera italiana. Di fronte, gli otto giudici della corte d’assise arrivati dalla Sicilia, che stanno cercando di svelare i misteri sulla trattativa fra pezzi dello Stato e uomini della mafia. Misteri ancora profondi sul 1992-1993, la stagione delle bombe fra la Sicilia e Firenze, fra Roma e Milano.
Il testimone presidente scruta uno per uno i volti di questi giudici e racconta cosa furono per lui quegli anni. «La notte fra il 27 e il 28 luglio 1993 – è il passaggio più drammatico, più decisivo della sua deposizione – fu subito chiaro che quelle bombe erano un ulteriore sussulto della strategia stragista portata avanti dalla fazione più violenta di Cosa nostra, per porre i poteri dello Stato di fronte a un aut aut. O per ottenere benefici sulla carcerazione, o per destabilizzare lo Stato».
Questo spiega, senza giri di parole, il presidente quando il pubblico ministero Nino Di Matteo gli chiede «quale fu il convincimento delle più alte cariche dello Stato nei momenti in cui scoppiavano le bombe a Milano e Roma». Il magistrato chiede ancora: «Ebbe la sensazione che quelle bombe fossero un ricatto?». Il presidente non esita un attimo. E dice: «Sì».
Così, nella sala del Quirinale trasformata in un’aula di giustizia, emerge un frammento di verità importante grazie al racconto del testimone Giorgio Napolitano, all’epoca presidente della Camera. In quei giorni di angoscia e di strazio, i vertici dello Stato compresero chiaramente qual era il messaggio che portavano le bombe di mafia. Napolitano spiega, rievoca le analisi di quelle ore «condivise con le più alte cariche», il presidente della Repubblica Scalfaro e quello del Senato Spadolini.
«Assistemmo a una successione in evoluzione logica e schiacciante delle bombe», ricorda. E per tre ore e dieci risponde a tutte le domande che gli vengono rivolte, prima dai pubblici ministeri di Palermo, poi anche dal legale di Totò Riina, l’avvocato Luca Cianferoni.
GIORGIO NAPOLITANO E LORIS D'AMBROSIO
Non solo sulla stagione del 1992-1993, ma anche sulla lettera che due anni fa gli inviò il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, messaggio in cui esprimeva i suoi «timori» sugli «indicibili accordi» che potrebbero aver attraversato un pezzo delle istituzioni in quegli anni. Napolitano dice di non aver ricevuto alcuna confidenza particolare al proposito da D’Ambrosio. E ribadisce quanto aveva già scritto ai giudici di Palermo. Lui non ha mai saputo di «indicibili accordi » nel cuore dello Stato.
LA LETTERA DEL CONSIGLIERE
Inizia proprio con la lettera di D’Ambrosio la prima domanda del procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Alle 10,05. Mentre il palazzo del Quirinale è blindato più che mai e un centinaio di giornalisti aspettano all’ingresso, in una piazza chiusa da un imponente cordone di sicurezza. Prima che cominci l’audizione, Napolitano viene ringraziato pubblicamente dal presidente della corte, Alfredo Montalto, «per la disponibilità e l’ospitalità».
Poi, il capo dei pm di Palermo, il procuratore reggente Leonardo Agueci tiene a sottolineare che la sua presenza è «un atto di rispetto per la persona del presidente della Repubblica, per l’atto che sta per compiere e per la verità che stiamo cercando».
L’atmosfera è distesa, di grande serenità.
Ma il momento resta solenne, anche perché Napolitano continua ad esercitare le sue funzioni di capo dello Stato in quelle ore in cui è chiuso nella sala del Bronzino. E accanto al testimone c’è il vice segretario generale della presidenza della repubblica. Un’eccezione speciale per questa audizione. Il giudice Montalto ne dà atto e «autorizza» la presenza accanto al testimone »per assicurare la continuità della funzione presidenziale».
Iniziano le domande. I procuratori di Palermo sono tutti lì. Accanto ad Agueci c’è l’aggiunto Teresi, ci sono Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Tutti seguono attenti la sequenza delle domande, 37 ne hanno preparate. Repubblica ha ricostruito le risposte del presidente Napolitano attraverso i racconti di tre diverse fonti, che hanno assistito all’audizione.
Teresi chiede al testimone di ripercorrere gli incarichi istituzionali svolti. Poi, subito, si apre il capitolo D’Ambrosio. Il capo dello Stato spiega di averlo conosciuto nel maggio 1996: «Fu il ministro della Giustizia Flick a presentarmelo». Ricorda le sue doti morali e la sua «grande cultura e preparazione giuridica». Tiene a precisare che con lui aveva un rapporto di «stima e affetto», seppur sempre un «rapporto di lavoro». Quella lettera – una lettera di dimissioni dopo le polemiche seguite alle intercettazioni di D’Ambrosio con Mancino – arrivò senza alcun preannuncio sul tavolo di Napolitano, fu un «fulmine a ciel sereno».
IL GIALLO NEL LIBRO
Il procuratore Teresi legge alcuni passi di quella lettera, i più drammatici sulla stagione del 1989-1993. Napolitano ricorda lo «stato di esasperazione» del suo consigliere giuridico, per il caso Mancino: «Era sconvolto per la campagna mediatica di quei giorni». Ma precisa di non aver mai saputo nulla di più da Loris D’Ambrosio sui timori che ipotizzava. Precisa di non aver mai parlato con D’Ambrosio degli spaventosi anni del 1989-1993, quelli citati nella lettera. E lo di- ce precisando che vuole rispettare la «riservatezza » che copre i colloqui di un presidente, ma gli sta a cuore la trasparenza della sua deposizione.
Napolitano evoca le guarentigie del capo dello Stato «che la sentenza della Corte Costituzionale ha efficacemente sintetizzato», ma non si tira indietro. Vuole chiarire tutti gli interrogativi che risuonano nell’aula, anche quando il presidente della corte non ammette qualche domanda del legale di Riina, ad esempio sul «non ci sto» di Scalfaro.
Teresi chiede ancora dei timori di D’Ambrosio, ricorda che nella lettera si fa cenno a uno scritto del consigliere consegnato alla sorella di Falcone per un libro sul 23 maggio 1992. Napolitano ammette la «drammaticità» di quelle parole, ma anche lui si stupisce del fatto che nel testo in ricordo di Falcone non si trovi alcun riferimento agli «indicibili accordi».
Così le parole di Napolitano confermano quello che è un altro grande interrogativo dei pm attorno alla lettera di D’Ambrosio. Il presidente tiene però a precisare che se il suo consigliere avesse avuto indicazioni importanti, e non solo sospetti, «si sarebbe rivolto alla magistratura».
LA CONFIDENZA DI VIOLANTE
Si torna ai misteri del 1992-1993. Di Matteo chiede se è a conoscenza di «dubbi» di qualcuno al vertice delle istituzioni sulla posizione da adottare sul carcere duro. È il cuore del processo. Napolitano ricostruisce la fase politica dell’epoca, ma spiega di non conoscere retroscena.
Il pm chiede ancora se seppe mai della richiesta di Vito Ciancimino, per i pm uno dei protagonisti della trattativa, di essere sentito dalla commissione antimafia. È un altro dei passaggi chiave dell’audizione. Perché Napolitano dice di averlo appreso all’epoca dal presidente della commissione antimafia, Luciano Violante. Alla fine dell’udienza anche il presidente Montalto gli chiederà un approfondimento, per capire se Violante gli parlò dei contatti fra Ciancimino e il Ros. Napolitano risponde di no.
L’ALLERTA DEL SISMI
Ora si parla delle minacce di attentato nei confronti del presidente rilevate dai servizi segreti nel 1993. Il testimone conferma che fu Parisi ad avvertirlo, «alla vigilia di una partenza per la Francia». E in quei giorni Napolitano fu scortato dalle teste di cuoio dei Nocs. L’audizione del presidente della Repubblica è adesso in un file, che i giudici hanno già consegnato a un perito trascrittore. Già domani potrebbe arrivare il verbale con tutta la deposizione.