1 - LA LEGA FRENA: TESTO DA RIVEDERE E ORA LA FIRMA CON XI È A RISCHIO
Marco Conti per “il Messaggero”
«Rinviare». Nella Lega ne sono ormai tutti convinti. L' adesione dell' Italia alla Belt of Road Initiative (BRI) va «come minimo approfondita», sostiene il sottosegretario leghista agli Esteri Guglielmo Picchi. Importante è ora convincere un altro sottosegretario in quota Lega e, soprattutto, Luigi Di Maio che con Michele Geraci è stato già un paio di volte in Cina per stringere il memorandum di intesa che dovrebbe essere firmato da Giuseppe Conte a fine mese, quando il leader cinese Xi Jinping sarà in Italia dal 21 al 24 marzo con una settantina di industriali al seguito.
La Lega vorrebbe conoscere il testo dell' intesa. Su La Via della Seta sono troppi i dubbi e le pressioni degli alleati a stelle e strisce per non approfondire. Un paio di giorni fa, parlando a Milano al festival di Limes, Conte ha confermato che il governo «sta lavorando per sottoscrivere un Memorandum of Understanding» precisando che «ovviamente è un accordo quadro e non significa che il giorno dopo siamo vincolati ad alcunchè», ma le indiscrezioni sul testo dell' intesa hanno fatto drizzare i capelli a Washington come alla sede Nato di Bruxelles.
Gli Stati Uniti non mollano e da giorni avvertono l'Italia del rischio di colonizzazione cinese e dei rischi che corre la stessa Alleanza Atlantica. L'eventuale accordo infrastrutturale, che potrebbe spalancare all' Italia le porte di molti paesi africani dove la Cina opera da tempo, si unisce alla cessione della gestione della frequenza 5G a Huawei già fatta dall'attuale governo e sulla quale sempre la Lega vorrebbe tornare indietro.
LUIGI DI MAIO IN CINA CON MICHELE GERACI
Progetti infrastrutturali, terrestri e marittimi, che coinvolgono anche numerosi porti italiani e che per gli Usa sono strumenti di una colonizzazione che la Cina avvia in Europa sfruttando la debolezza politica ed economica di uno dei Paesi del G7 che in questo modo si sfila anche dall'intesa quadro che Bruxelles vorrebbe stringere con Pechino anche sul 5G.
La richiesta fatta ieri da Salvini di «tutelare l'interesse nazionale soprattutto quando si parla di telecomunicazioni e dati sensibili», è forse il frutto della pesante richiesta all'Italia di riflessione fatta dalla Casa Bianca e da Bruxelles. Nonché dal recente viaggio a Washington del sottosegretario di Stato Giancarlo Giorgetti che in quella occasione ebbe a dire che il problema dell'Occidente «non è la Russia ma la Cina».
michele geraci giuseppe conte giorgetti aquilanti
Ponti, strade, ferrovie, navi, ma anche vie della Seta digitali. Sotto questo punto di vista la posizione dell' Italia nel Mediterraneo, strategica per il controllo dei grandi cavi sottomarini e dei relativi dati, mette a rischio anche miliardi di informazioni. Metterli «in mano ad altri è cosa molto delicata e quindi bisogna pensarci cinque volte», insisteva ieri a Milano il leader della Lega.
Ma se per gli Usa si tratta di accordi che minacciano la sicurezza nazionale, Di Maio prova a cogliere gli aspetti di business escludendo dall' intesa intenti politici. Ingenuità o scarsa conoscenza di come Pechino, attraverso i suoi colossi industriali (controllati sempre in qualche modo dallo stato cinese), aumenta la sua influenza geopolitica. Senza contare che in attesa dei miliardi di yuan si rischiano di perdere gli investitori americani.
michele geraci sottosegretario allo sviluppo economico
Sul testo messo a punto dai cinesi e inviato al Mise - e che prevede sei corridoi, uno terrestre e cinque marittimi che dovrebbero connettere l'Eurasia a Pechino collegando i mercati cinesi all' est Europa tramite il porto di Trieste e all'ovest tramite il porto di Genova - si dovrà quindi lavorare ancora di fino.
Qualcosa in più capiranno domani i parlamentari del Copasir quando incontreranno Conte proprio per capire i contorni dell' intesa con Huawei e sapere cosa effettivamente contiene il memorandum che dalla task force Cina del Mise è ora sotto la lente del ministero degli Esteri. Of course.
2 - IL GRANDE GIOCO SULLA VIA DELLA SETA
Guido Santevecchi per “l’Economia - Corriere della Sera”
CINA - LA NUOVA VIA DELLA SETA
Si parla molto di analisi costi-benefici di questi tempi in Italia. Non bastava la Tav, ora da Washington è stato aperto con grande polemica il fronte «Belt and Road», la Via della Seta tracciata da Xi Jinping per costruire un corridoio terrestre lungo l'Asia Centrale e uno marittimo attraverso l'Oceano Indiano e l'Africa: una serie di infrastrutture tra Cina ed Europa. Xi aveva lanciato l' idea nel 2013 con un discorso nella mitica Samarcanda, in Uzbekistan.
Quando aveva parlato di «Yi Dai Yi Lu», che significa «Una cintura una strada», «One Belt One Road», pochi avevano prestato attenzione: il presidente cinese era ancora un oggetto sconosciuto, non si capiva se fosse un riformista o un conservatore, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale.
Poi Xi si è fatto capire meglio, vuole guidare la ri-globalizzazione (cinese) all' era dell' America First di Donald Trump, ha proposto a chi «non ha paura di navigare nell' oceano della globalizzazione» di «salire sul treno dello sviluppo». Frasi retoriche accompagnate però da cifre enormi: le nuove Vie della Seta saranno lastricate con 900 miliardi di dollari almeno in investimenti per costruire linee ferroviarie, porti, strade, telecomunicazioni, griglie energetiche tra Est e Ovest. Punto di partenza, centro di tutto, la Cina.
Veniamo ai costi-benefici per l' Italia che vuole firmare un Memorandum d' intesa sulla Via della Seta.
Con scarsa delicatezza il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha detto che l'adesione alla «Belt and Road» potrebbe «danneggiare la reputazione globale dell'Italia nel lungo periodo». Costo politico serio, visto che gli Stati Uniti sono per noi un punto di riferimento per economia e sicurezza numericamente e storicamente molto più pesante rispetto alla Cina.
Da Pechino il ministro degli Esteri Wang Yi ha detto di avere fiducia che l'Italia «terrà fede alla decisione presa in modo indipendente». Un ripensamento danneggerebbe il rapporto con la Cina. La stampa statale cinese ci ha fatto i conti in tasca: ha osservato che in un quadro di rallentamento, debito, disoccupazione, sottoscrivere il progetto potrà agevolare la penetrazione di prodotti italiani in Cina e creare opportunità di collaborazione nella costruzione di infrastrutture in Paesi terzi.
Pechino ha investito già 13,7 miliardi di euro in Italia, siamo terzi in Europa dietro Gran Bretagna e Germania. Cento milioni di investimenti creano circa mille posti di lavoro, conclude il ragionamento cinese. È poco rassicurante che i costi siano sottolineati da Washington e i benefici prospettati da Pechino: rischiamo di finire nel mezzo del fuoco del nuovo scontro strategico Usa-Cina, che non si esaurirà con una tregua nella guerra dei dazi.
Analisi tecniche sono state tracciate anche a Roma. L'Ufficio studi di Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti ha pubblicato già nel 2017 un dossier sulla Belt and Road, dal titolo evocativo: «Ultimo treno per Pechino». Prende atto che la Belt and Road è un'iniziativa strategica con l'obiettivo di creare un'area di cooperazione politica ed economica in cui l'attore principale sia la Cina.
Tra gli scopi c'è quello di sostituire gli Usa come nuovo attore globale ed esportare l'eccesso di capacità produttiva cinese. Però, restare fuori apre il rischio di marginalizzazione perché la cintura e la strada di Xi abbracciano il 38 per cento del territorio mondiale, il 62 per cento della popolazione, il 30 per cento del Pil e il 24 per cento dei consumi interni.
Sace sottolinea che «la naturale propensione italiana verso il settore logistico-portuale, composto da un cluster di 160.000 aziende dal valore stimato di circa 220 miliardi di euro» può pesare molto nel progetto cinese. Vengono citati i porti di Ravenna, Trieste soprattutto e come «brand» Venezia. Il nome della città di Marco Polo affascina ancora i cinesi: e l'Italia nella «Yi Dai Yi Lu» darebbe al progetto il marchio di nobilità del primo Paese del G7 a bordo.
Il Memorandum d'Intesa sembra una formula politico-diplomatica sufficientemente vaga da non legarci in modo ignominioso al carro dell'imperatore cinese. Se è indeterminato, a che cosa serve il Memorandum? In cambio dell' adesione prestigiosa si potrebbero ottenere con maggiore rapidità vantaggi sui dossier commerciali (ci sono voluti anni solo per sbloccare l' export per via aerea delle nostre arance).
Ma se tutto finirà bene, con una bella cerimonia di sottoscrizione, se dopo il memorandum arriveranno i progetti per infrastrutture, siamo sicuri di poterci impegnare? Ricevere investimenti da Pechino per la piattaforma logistica del porto di Trieste, diventare approdo per i container cinesi diretti in Europa occidentale e orientale, lavorare per costruire ponti e ferrovie in Africa darebbe sicuramente impulso a un Paese in recessione.
Sempre che alla fine la sindrome da No Tav non prenda in ostaggio ogni iniziativa.